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12 anni schiavo

Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film

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La recensione su 12 anni schiavo

di alan smithee
8 stelle

Puo' esistere un negriero buono e uno cattivo? Il fatto stesso di sentirsi appartenente ad una razza superiore o di credersi umano a differenza dello schiavo, trattato come un cane, come un animale da fatica, nel bene e nel male, nella condiscendenza come nella furia, nel capriccio dell'attrazione fisica come in quello della gelosia, non può che rendere il "padrone" un essere disumano, laido, malvagio, deprecabile. Facile a dirsi ora, nell'epoca della comunicazione istantanea pressoché ovunque, nell'era del consolidamento quasi unanime (salvo qualche inesauribile roccafforte dittatoriale ancora viva e resistente) dei diritti civili e delle libertà come baluardo della modernità e del progresso anche nelle civiltà del'est, europeo e non. Per secoli l'America delle libertà, è stata territorio di schiavismo, sfruttamento, morti atroci perpetrate con l'arbitrio di un padrone-giudice-dio che rivendicava nell'essere vivente acquistato, un diritto di proprietà inalienabile e quindi un potere di disposizione pressoché totale che neppure una legge di stato poteva impugnare o contestare. Ecco che dunque nell'America divisa tra un Nord democratico, industrializzato e già aperto ai diritti civili e alle parità di diritti tra razze conviventi e un Sud agricolo che sopravviveva di un'economia e manovalanza garantita solo più da schiavitù,  qualche organizzazione criminale scoprì che conveniva ancora di più sottrarre popolazione di colore dalla regione settentrionale per venderla come schiavitù fuggiasca ai proprietari terrieri del sud; alimentando in questo modo un commercio più semplice che evitava stosi viaggi di rifornimento oltreoceano ed ingannando due volte una razza offesa e ferita a scapito di una fiera, superba e dominante. È quello che è accaduto (per davvero!) al violinista di colore ed uomo libero Salomon Northup, rapito con l'inganno da New York e portato a Washington per essere venduto come schiavo prima ad un coltivatore benigno e compassionevole (ma tutt'altro che risolutivo nel suo agire a favore del suo servo), poi ad uno violento, alcolizzato e folle. Dodoci anni di martirio ed una salvezza che è frutto di un intervento miracoloso che capitò in realtà ben poche volte in simili circostanze. Steve McQueen sfrutta il romanzo autobiografico di questo sventurato prigioniero e torna in tale occasione, al suo terzo film, a parlare di libertà e diritti civili (dopo il folgorante esordio di Hunger) in un'America che dal secondo dopoguerra si è forgiata sempre più velocemente e con una certa pertinenza della caratteristica di nazione garante dei diritti civili e baluardo di pari opportunità a tutti i cittadini di ogni razza e sesso, ma che nei secoli precedenti ha  convissuto per centinaia di anni con l'abominio della schiavitù,  della segregazione, dello sfruttamento e della tortura. L'ottimo film di McQueen è utile più che mai e necessario per rinfrescare le nostre menti spesso restie e tener vivo il ricordo che la storia ci può spesso fornire, come lezione utile e saggia per non indurci a ripetere gli abomini del passato. In fondo gli eccidi del nazismo sono lo stesso risultato distorto e diabolico del sentimento di superiorità di un razza sull'altra e più in generale il sacrificio da pagare quando la brutalità della razza umana si abbandona agli istinti più primordiali, quelli che nessun essere vivente è in grado neppure di immaginare.
E cosi, tra le paludi di una Louisiana sovrastata da smeraldini e carnosi campi di mais sottratti ad acquitrini e a foreste di alberi che piangono ragnatele di vegetali intricatissimi - quasi a rivendicare la tristezza di un martirio silenzioso e dignitoso di una razza sulla rivale e persecutrice - si consuma l'odissea personale del buon Salomon, una tragedia che si fonde con le migliaia di altri infelici, di tutti coloro che sono stati strappati alla loro famiglia, lontano dalla propria casa, in altro continente o stato che essa si trovi. "12 anni schiavo", pluricandidato e favorito per la notte degli Oscar, ha la statura e la dignità di un grande film che, per una volta, può far combaciare i bizzarri e spesso discutibili gusti conformisti e prevedibili di una Academy sempre meno distintiva di capacità di giudizio cinefile, e quelle di una critica più ricettiva e propensa a valutazioni di merito in grado di sorvolare su facili sentimentalismi o ammiccamenti furbi o puerili. Grandi interpreti, efficaci ed emozionanti, aiutano non poco una regia, attenta a districarsi  con abilita' tra diversi livelli temporali di narrazione, a rendere spesso emotivamente dirompente la presa del racconto senza tuttavia mai eccedere in sentimentalismi grossolani o frettolosi buonismi. (Insomma altro che "The butler", spesso melenso con le sue caricature presidenziali inizialmente anche accattivanti ma allalunga indigeste, con i suoi camerierini silenziosi ed obbedienti ad un bianco sempre buono, pacato e riflessivo, ma anche pur sempre capo e infallibile). E dunque onore al sempre notevole Chiwetel Ejiofor, occhi sanguigni che piangono fiumi di dolore, non certo solo fisico, a Lupita Nyong'o, straziante oggetto del desiderio ma pure dell'odio e del rancore tra due coniugi padroni che se la contendono come un oggetto usa e getta; e ancora Michael Fassbender, irrinunciabile presenza per McQuenn, perfettamente a suo agio quando si tratta di interpretare un bastardo, sia esso una SS tarantiniana che come qui accade nel tratteggiare con puntigliosita' un perverso schiavista sanguinario e vendicativo. O l'enigmatico Benedict Cumberbatch,  che fino ad un certo punto riesce pure a convincerci di una sua certa bontà di fondo, quella simile , come stile ed atteggiamento, al comportamento non proprio saggio e decisionista di quel laido d'un Ponzio Pilato.

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