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Hejar

Regia di Handan Ipekci vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Hejar

di yume
8 stelle

Nella contaminazione fra parola e immagine, nel qui e ora della realtà filmica si realizza il senso, epifania della comunicazione negata e ritrovata.

 Il vecchio giudice Rifat leggeva tranquillo, Sakine, la domestica, terminava i lavori, tutto scorreva come sempre, ma sul pianerottolo ora c’è Hejar, muta, li guarda immobile, è uscita dal nascondiglio, ha attraversato non vista il campo di battaglia, lentamente ha varcato la soglia e ora è schiacciata fra due barriere.

Il significato del suo nome è “schiacciata”.

La storia di Hejar è a combustione lenta, come il suo passo di bambina inconsapevole e triste, cinque anni e lunghe trecce nere scarmigliate, un vestitino rosso e ferite alle braccia.

Dice solo “mamma” in una lingua sconosciuta al vecchio giudice turco, rigido custode della tradizione e della propria tranquillità.

Una sola parola di Hejar e Sakine capisce, è curda anche lei, e ora Rifat finalmente lo sa, dopo dieci anni di servizio.

Sakine si scusa, quasi piange mortificata mentre culla la bambina, il vecchio giudice è perplesso, sconvolto, in un attimo sul suo equilibrio di solitario pensionato abitudinario pesa la minaccia di un disordine che non basterà una domestica a rigovernare.

Handan Ipekci mette in scena la storia amara di un vecchio di fronte alla situazione che ora deve necessariamente gestire.

Rifat ed Hejar non sono il vecchio e la bambina delle favole per l’infanzia protetta, o forse sì, ci sono anche favole aperte che cominciano così: “c’era una volta un bambino che improvvisamente ebbe tanta paura…” . Il bambino, poi, deve continuare la storia, le sue turbe psichiche verranno a galla e le valutazioni psicodinamiche saranno conseguenti.

Ma se il bambino parla una lingua sconosciuta? Peggio, se parla una lingua proibita? E se l’unica parola che dice è mamma e questa è morta, è morto il padre e lo zio Edvo, povero in canna e con tanti altri figli, l’ha portata da quella cugina che ospitava membri della resistenza? E se la polizia ha fatto irruzione con le mitragliette?

 "Non è stato possibile per me  non fare un film sul popolo curdo" ha detto la regista.

Per qualche tempo il film, già selezionato per rappresentare nel 2001 la Turchia agli Academy Awards, è stato ritirato dalle sale e la Ipekci ha corso il rischio del carcere per aver offeso le autorità, denunciando i metodi della polizia e la repressione culturale e fisica di un popolo.

Eppure Hejar non mette in scena la disperazione, la rabbia, l’invettiva.

E’ la storia semplice di due mondi che devono capirsi per forza di cose, e se le parole sono conquiste lente e difficili, la comunicazione trova altre strade, e lo fa con la discrezione che non esibisce, non compatisce nè si esalta.

Tutto avviene perché non può non essere, le circostanze, i due protagonisti, la realtà effettuale che  attraversa lo schermo non è racconto, piuttosto è vita in un posto dove non è facile vivere.

L’assunto di base è il riconoscimento delle barriere.

Gruppi sociali, famiglia, vicini di casa, tutto è all’insegna della non- unità.

Rifat ed Hejar si guardano con diffidenza, arrivano anche ad insultarsi, ognuno nella propria lingua, l’orgoglio è smisurato da entrambe le parti e steccati secolari sembrano entrati nel loro codice genetico.

Pur di risolvere in qualche modo una situazione che lo attrae e lo respinge con la stessa forza, Rifat si muove alla ricerca di un’identità per la bambina, e il salto dal suo mondo borghese a quello emarginato dello zio Edvo è un breve spaccato sulle condizioni di miseria in cui versa una delle fasce sociali meno protette al mondo.

Un grado alla volta, con sottile progressione segnata da minuscoli dettagli disseminati con sapienza, una fotografia sporca, minimalista, a ritrarre gli spazi circoscritti e il tempo fuori del tempo dell’infanzia e della vecchiaia, la relazione fra i protagonisti si modifica quanto basta per mettere in scena un finale aperto, come quelle favole della Duss di cui sopra:

c’era una volta un bambino che improvvisamente ebbe tanta paura…”

Lo scriverà Hejar, in quello spazio del dopo che noi non sapremo, o forse ci sarà un altro film a raccontarlo.

Nella contaminazione fra parola e immagine, nel qui e ora della realtà filmica si realizza il senso, epifania della comunicazione negata e ritrovata.

Il giudice Rifat ha imparato da Sakine le parole necessarie per dire qualcosa ad Hejar, la bambina sa sorridere, lui può anche farle una carezza e desiderare di adottarla, lei continuerà a cercare la madre.

Le parole, poche, spesso proibite, e il loro dilatarsi infinito.

 

 

www.paoladigiuseppe.it

 

 

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