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La grande bellezza

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La grande bellezza

di deepsurfing
9 stelle

La Grande bellezza è un simbolo che si dichiara trucco o un trucco che finge di essere simbolo? Cerco di rispondere in una lunga analisi in due parti, che esplora il tema di fondo del film: la profonda ambivalenza di trucco e simbolo.

Toni Servillo

La grande bellezza (2013): Toni Servillo

 

(Parte prima)

In un TedxTalk dell'ottobre 2011, due anni prima dell'uscita della Grande bellezza, il regista Paolo Sorrentino venne invitato a spiegare “come funziona” ed esordì dicendo: “Cerco sempre di inseguire l'ironia, perché nel mio lavoro l'ironia costringe a trovare il ritmo e il ritmo è il battito delle cose, che mi serve per provare a fare dei racconti che possano interessare e piacere. Sperando che dentro l'ironia affiori anche qualcosa di serio”.

Caratteristica essenziale dell'ironia è l'ambivalenza: la possibilità di essere presi alla lettera non può mai essere esclusa. E l'ambivalenza dell'ironia ha molto a che fare con la mia idea che il cinema di Sorrentino, soprattutto nei suoi ultimi film, tenda a una specie di ambiguità estetica, che sembra farli oscillare tra Kitsch e profondità del “modo simbolico”. Tale ambiguità è dovuta a un uso intensivo di “epifanie”, momenti inaspettati e fuori luogo che si caricano per questo di un forte simbolismo indeterminato ed evocano, a seconda del modo di interpretarli, o fertili “nebulose simboliche” o insulsi rigurgiti retorici. Tra i due poli, quello del simbolo poetico e quello del trucco retorico, si crea così un'ambivalenza inestricabile (ne ho parlato qui). Il film in cui questa ambivalenza di simbolo e trucco è più evidente è La grande bellezza, perché non solo la incarna, ma ne fa addirittura uno dei temi di fondo.

Il film inizia con una violenta contrapposizione. La prima sequenza mostra Roma in un luminosissima giornata estiva: scorci suggestivi, lunghi e fluenti movimenti di camera, accompagnati dalla musica estatica di un coro a cappella femminile che canta affacciato sulla fontana del Gianicolo. La seconda, una festa notturna, con un montaggio incalzante e musica techno: corpi esibiti, sguardi morbosi, folla dimenante, luci acide, colori saturi, espressioni e volti quasi caricaturali. Le due sequenze esprimono, in modo fin troppo didascalico, il contrasto tra grande bellezza e grande bruttezza, tra la bellezza della cultura alta e il Kitsch della cultura bassa; la magnificenza antica di Roma e lo squallore moderno dei romani. Due mondi paralleli, opposti e separati come il sacro e il profano; o il giorno e la notte, appunto. È la faccia più appariscente del film: una tagliente e amarissima satira della nostra vita sociale e culturale trasformata in vita notturna, marcia e debosciata. Ad essa rimandano anche le allusioni allo sfacelo dell'Italia nell'immagine della Costa Concordia o nel personaggio secondario di Giulio Moneta, il misterioso uomo d'affari che si rivela “uno dei dieci latitanti più ricercati del pianeta” e si dichiara uno che “fa andare avanti il paese”; o nella sequenza del chirurgo estetico-guru, iperbolicamente felliniana, quasi una parodia dell'onirica satira di costume del maestro riminese.

Guardando con più attenzione, si scopre però che la contrapposizione nasconde qualcos'altro. Per cominciare, le due sequenze iniziano con una “rima” ironica (sempre nel TedxTalk del 2011, Sorrentino dice che “fare le rime”, collegare le cose, è la cosa più difficile del suo lavoro): la “grande bellezza” inizia dall'interno della bocca di un cannone, quello del Gianicolo, che scandisce il mezzogiorno romano; la “grande bruttezza” dall'interno della bocca urlante di una donna dal trucco vistoso. L'ironica simmetria sottolinea il contrasto tra i due mondi, ma anche una loro sottile affinità: sono entrambi inquietanti; o meglio “perturbanti” nel senso di Freud: fanno affiorare l'alieno nel famigliare.

Nella prima sequenza è soprattutto la musica (I lie di David Lang) a insinuare l'inquietudine tra gli scorci pittoreschi di Roma: un coro femminile con un andamento intermittente e sospeso, e un mood misterioso che acquista ancora più evidenza ed enigmaticità per il fatto di essere eseguito in scena e di commentare immagini tutt'altro che da cartolina. È una Roma in pieno giorno, ma silenziosa e quasi vuota, dall'atmosfera surreale in cui il sacro ha un'ombra minacciosa, che contrasta coi piccoli inserti della Roma reale, prosaica, indifferente alla “grande bellezza” e alla sua ombra.

Per contro la seconda sequenza è costruita con un montaggio serrato da video-clip, sul remix di Far l'amore di Raffaella Carrà. Dall'estatico surrealismo della prima sequenza, si passa a un'atmosfera grottesca di euforia erotica: tutto vicino, caldo, sudato; ma anche deformato e vagamente disturbante, come se lo spirito di un'orgia dionisiaca aleggiasse sul tumultuoso Kitsch soft-porno televisivo di un villaggio turistico di lusso (è il mondo “Cafonal” di D'Agostino, da cui Sorrentino pare abbia attinto a piene mani).

Proprio in questo sottomondo notturno fa la sua teatralissima entrata il protagonista, Jep Gambardella. come una star tra la folla, col sorriso sornione di Toni Servillo. Subito però la musica si smorza, i movimenti rallentano e, mentre la camera indugia sulla sua maschera diventata assorta e impassibile, sentiamo la sua voce fuori campo, con quell'accento napoletano blasé che cade a pennello sul personaggio. La memorabile frase ad effetto (quella della “fessa” e dell'odore delle case dei vecchi) rivela subito la natura ibrida e contraddittoria di Jep: un essere del del primo mondo, che ha scelto di vivere nel secondo. È questo il vero fulcro del film: la natura ambivalente e conflittuale del protagonista, che, come vedremo, rispecchia quella della polarità trucco-simbolo.

Una presentazione così teatrale e barocca risponde a un altro tipico “modo di funzionare” di Sorrentino: la necessità di sbalordire; e il bisogno di riscattare, nel mondo dell'immaginazione filmica, la noia che ammorba il mondo reale. Un trucco, dunque. Che ha però anche l'enigmatica incongruità del simbolo epifanico: che c'entra “l'odore delle case dei vecchi”? Cosa significa? Si mette in moto la macchina interpretativa, assieme alla macchina narrativa. Un po' come succede col MacGuffin di Hitchcock: cos'è il Sarchiapone? Cosa c'è nella scatola misteriosa?

 

Toni Servillo

La grande bellezza (2013): Toni Servillo

 

Un film sulla vita d'artista e la nostalgia.

Arte e vecchiaia è un'accoppiata di concetti cruciale, perché per Sorrentino (in questo film e più ancora nel successivo Youth) la vecchiaia non è tanto questione anagrafica, quanto atteggiamento nei confronti della vita e dell'arte. “L'odore delle case dei vecchi” opposta alla “fessa” è un altro modo - snob e ironico come il suo autore – per dire la contrapposizione dei due mondi presentata all'inizio. Ma Jep, a quanto pare, predica bene e razzola male: l'artista destinato alla sensibilità, che amava l'odore delle case dei vecchi è ora attorniato dalla “fessa”. Com'è successo? Nel corso del film scopriamo che, pur avendo esordito con un romanzo che la critica ritiene un capolavoro, Jep non ha più scritto libri. Confessa di essersi lasciato prendere dal vortice della mondanità e di aver deciso di raggiungere l'eccellenza proprio in quel mondo, di diventare “il re dei mondani”: il dandy dalla conversazione fulminante, sorridente maestro di vita e d'eleganza, ammirato e corteggiato; attorno al quale ruota il mondo notturno della ricca borghesia romana con la sua corte dei miracoli, piena di narcisismi fragili o pacchiani, velleità artistiche e personaggi vuoti e grotteschi.

Il film non mostra questa conversione a rovescio; e la spiega solo alla fine, quando Jep, dopo tante battute evasive, darà finalmente la risposta che riassume il senso del film e il suo titolo. Ma l'esile trama è messa in moto proprio dalla misteriosa contraddizione del personaggio; e racconta la sua trasformazione non come un viaggio lineare, una catena causale di eventi, ma attraverso una serie di piccoli episodi che hanno spesso il tono di momenti epifanici, come si addice, appunto, al “modo simbolico”. La successione casuale di situazioni, incontri ed eventi che il film inanella attorno al motore immobile del suo protagonista, non serve solo a descriverlo, ma anche a mostrare le crepe che intaccano pian piano il suo ironico nichilismo e gli permetteranno di superare il blocco, in modo inaspettato, barocco e molto epifanico.

Di questo conflitto interiore, che cova sotto le ceneri dell'artista invecchiato e rassegnato alla sua sterilità creativa, Roma è lo scenario ideale perché nella sua immagine convivono lo splendore e la corruzione, il sacro e il profano, l'alto e il basso, i fasti antichi e i nefasti moderni. Ed è quindi perfetta per esprimere non soltanto la contrapposizione socio-culturale citata all'inizio, ma anche, soprattutto, la contraddizione che Jep Gambardella vive dentro di sé. “L'odore delle case dei vecchi” suggerisce un atteggiamento nei confronti della vita opposto a quelli più comuni: invece della spinta compulsiva al godimento, c'è un sentimento malinconico, attratto dagli effetti del tempo, dall'inesorabile senso della fine, dalla nostalgia.

Questa è la vocazione artistica di Jep: la sensibilità alla caducità dell'esistenza e a tutta la struggente nostalgia che scaturisce quando la si guarda dall'orlo del baratro. Jep non ha perso questa sensibilità. Lo dimostrano le sue camminate all'alba per Roma; gli sguardi assorti e intensi che riserva ai voli di storni nel cielo o ai bambini che giocano in un chiostro; le visite notturne clandestine ai tesori d'arte delle dimore principesche; il mare della sua giovinezza che vede sul soffitto della camera da letto.

Lo sguardo dell'artista - di Jep nei suoi momenti non mondani - è quello nostalgico che Raffaele La Capria, scrittore molto amato da Sorrentino, ha raccontato in ogni pagina del suo Ferito a morte: “Domani e poi domani quei giorni continueranno a splendere per conto loro, come se io fossi ancora qua o come quando morirò, ora o tra mille anni indifferenti e uguali, e per ogni domani separati da me, irrecuperabili come il suo sguardo”. Il romanzo di La Capria si sente, in filigrana, sotto la storia di Jep, napoletano trapiantato a Roma: il mare immaginato sul soffitto, il respiro delle onde, il gridio dei gabbiani; il tuffo per sfuggire il motoscafo e le ragazze sullo scoglio; il primo amore in riva al mare, acme simbolico della nostalgia, che apparirà nel finale del film. Ma il Jep di Sorrentino ha anche qualcosa del personaggio di Sasà, il leggendario dongiovanni “principe delle apparenze” e di “quelle famose serate che erano riuscite perché c'era lui, perché lui le aveva inventate addirittura”. Sono in un certo senso le due anime di Jep.

La sensibilità e la nostalgia rimane tuttavia inerte, infruttuosa in lui, che si lascia vivere in un mondo vuoto, pieno di persone vuote, sul filo della decadenza, benestanti e rassegnate. Egli sa tuttavia cosa si cela sotto il divertimento e il suo senso etimologico: il bisogno di sviare lo sguardo dall'inesorabile. Lo dice alla fine dell'episodio che a tutti rimane impresso per la spettacolare gogna riservata a Stefania, la scrittrice radical chic che vanta il suo impegno civile contro chi passa invece la vita “a fare lo snob”. La tirata di Jep è una vera esecuzione pubblica, un'impeccabile e impietosa asportazione della maschera in punta di bisturi, eseguita con splendida flemma partenopea (formidabile Servillo!). Ma dopo la tirata contro la falsa coscienza e il moralismo ipocrita di certa gauche-caviar, arriva anche l'esortazione alla pietas verso quella condizione comune di uomini e donne di una certa età, che cercano di non guardare alla realtà delle loro vite ormai destinate alla rinuncia dei sogni e al declino: «Siamo tutti sull'orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, prenderci un po' in giro”.

Il tema della nostalgia torna anche nell'ingenua, sentimentale performance teatrale di Romano (Carlo Verdone) prima del suo addio a Roma e ai suoi sogni d'artista, e nella figura di Ramona (Sabrina Ferilli), che pur essendo una spogliarellista e quindi una “fessa” per eccellenza, ha qualcosa della casa dei vecchi. A suo modo è anche lei un'artista invecchiata e disillusa, ma la sua arte è molto più effimera e la sua disillusione è molto più tragica: la malattia mortale che tiene nascosta le dona un alone malinconico. Jep è attratto dal suo semplice cinismo e dalla sua schiettezza da popolana. È Kitsch, come la tutina nude-look che sfoggia alla festa, ma non è vuota come la fauna di cui Jep è il re. È l'unica a inquietarsi per la sofferenza della ragazzina-prodigio costretta all'action painting e rimane incantata come una bambina di fronte alle antiche bellezze nascoste nelle magioni esclusive che il “mastro di chiavi” apre a loro.

Un'altra messinscena della nostalgia è il momento in cui la contessa Colonna, dopo la serata a pagamento in cui si è spacciata per un altra nobile, rientra a casa e, prima di ritirarsi nel suo modesto appartamento, sale nell'antico palazzo che la famiglia ha dovuto vendere, per rivedere la stanza e la culla in cui era stata bambina.

La nebulosa semantica della nostalgia riverbera dunque su diversi momenti del film. E coinvolge un altro tema ricorrente, intrecciato con la contrapposizione iniziale: il confronto tra arte classica e arte contemporanea.

(Chi fosse interessato, può trovare l'intera recensione qui: https://deepsurfing.wordpress.com/2016/12/07/trucchi-e-simboli-della-grande-bellezza/)

 

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