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La grande bellezza

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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Trismegisto

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La grande bellezza

di Trismegisto
8 stelle

Pensavo che La grande bellezza fosse una rappresentazione molto più realistica e documentaristica della volgarità dei ricchi romani, e che vi comparissero dei politici, magari quintessenziati nella rappresentazione inquietante della cupezza, interamente tragica e tutt’altro che comica, del potere, come nel Divo; invece la lente deformante del grottesco sembra quasi allontanare la realtà, trasporla su un piano in cui lo squallido, lo stupido e il brutto si cristallizzano in astrazione formale, sottolineata dalle risonanze insieme algide e struggenti delle note di Arvo Pärt, sullo sfondo della bellezza di Roma. L’Italia fu detta, qualche secolo fa, un paradiso abitato da diavoli: la Roma che si desume da questo film non pretende di scomodare le potenze infere, ma ti presenta le sue alte sfere, i suoi circoli esclusivi popolati da zombi, da vuote parvenze che agitano freneticamente il proprio residuo di vitalità, tutto un brulicare di spiriti animali che si affannano verso i loro assortiti obiettivi, il piacere, il potere, l’ostentazione, finanche le pretese d’intellettualità. La festa in discoteca all’inizio – A far l’amore comincia tu, la canzone della Carrà brutalizzata dal dj – che è tutta una galleria di volgarità, la frana estetica mal contenuta della ex-soubrette attempata che s’è arresa, ma allegramente, alle tracimazioni dell’adipe, la performer supponente e ridicola che davanti a uno sparuto pubblico di pensosi competenti si precipita nuda verso un arco d’acquedotto romano e vi dà una robusta testata, ma poi non sa render ragione delle proprie pretese al coglimento di ineffabili armonie, il chirurgo estetico di grido, che pratica serialmente istantanee inoculazioni di botox alle damazze romane, incassando centinaia di euro al secondo (e niente sconto per quella che in un momento di debolezza lo aveva tradito con un concorrente: prezzo intero, mille e due anziché settecento come le altre), il mondanissimo prelato che cattolicamente concilia la pratica esorcistica con l’esibizione molto trendy di competenze di alta cucina, esposte con la squisitezza di chi sa il viver del mondo, la scrittrice supponente che sfida Jep a dirle il fatto suo, e quello allora lo fa e le smonta l’opera e la vita in poche sentenze, le ultime sopravvivenze di una nobiltà decaduta disposta a figurare nelle feste per denaro, come aristocratico arredamento: Sorrentino ti sciorina tutto questo, e molto altro – a rischio di una certa ripetitività che anche è stata rimproverata al film – lasciando agglutinare il gran flusso di doviziose miserie, di mondanità vacua, decadente e grottesca, intorno a Gambardella-Servillo, che col tono fra il pensoso e l’affettato, come compiacendosi delle sapienti inflessioni della propria voce, da moralista navigatissimo, insieme svagato e implacabile, giudica e demolisce tutto quel privilegiato bruli-came. Senza dire mai nulla, in realtà, di veramente decisivo e profondo, tanto che in fin dei conti, e sarà anche proprio per quell’affettazione con cui lascia scivolare la dichiarazione, non memorabile, di aver avuto sempre l’ambizione non solo di frequentare le feste dell’alta società, ma di farle fallire, ti senti autorizzato a collocare anche lui, come esemplare del tutto congenere, nel bel mezzo di quella società che non gli riesce di sorvolare davvero, di analizzare col distacco dell’entomologo o dell’astronomo: e il solo varco verso una luce d’autenticità lo cogli nel suo protendersi verso la memoria della ragazza della sua gioventù, che poi aveva sposato un suo amico, lo stesso a cui tocca informarlo della sua morte; la contrapposta dignità di quel silenzio definitivo ti rende allora ancora più sgradevolmente squillante il cicaleccio di attori, artisti, soubrettes, estetisti, affaristi, avventurieri, aristocratici e squisiti prelati, e tutto quello che, pur in altri decenni e forse migliori, già Montale aveva definito “il bla bla / dell’alta società”. Potremmo considerare l’ombra silenziosa di questo varco d’autenticità il riscatto etico della gran rappresentazione, laddove l’omologo riscatto sul versante estetico è nello sfondo onniavvolgente, nello stratificato incanto della città, immeritato fondale di splendore millenario, valorizzato per di più da una sapientissima fotografia che, complici le trasparenze preziose della musica – My heart’s in the Highlands – immerge i monumenti in una luce tersa e magica. Pensi allora che tutto il fatuo brusio passerà senza lasciar tracce, e che una volta dissolte le foschie, ed evaporati i miasmi, a dare senso a Roma e al mondo resteranno, come sempre, le densità degli affetti e il cristallo della bellezza.

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