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La grande bellezza

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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La recensione su La grande bellezza

di maurizio73
6 stelle

La vita romana di Jep Gambardella, elegante e indolente firma di una rivista di costume, trascorre tra i trastulli etilici di frivole serate mondane e la frequentazione di un mondo effimero fatto di autori falliti e nobili decaduti, facoltose signore dell'alta borghesia e procaci spogliarelliste di borgata, vetuste missionarie in odore di santità e famelici prelati votati alle arti culinarie. Nell'attesa di ricominciare una carriera di scrittore interrotta con la sua prima e unica opera giovanile, favorevolmente accolta dalla critica, si divide tra le cronache di bizzarri vernissage alla moda e le peregrinazioni attraverso lo splendore effimero di una Roma notturna e surreale.
Nelle vertiginose evoluzioni dei movimenti di macchina e nella eccentrica ridondanza della messa in scena che da sempre scandiscono le forme di un cinema di feroce a amara irriverenza, Sorrentino prova a cimentarsi questa volta con l'affresco a tinte forti di una vacuità esistenziale assurta a paradigma della modernità, oscillando tra l'astrattezza della metafora sociale e la pacchiana esibizione delle miserie umane, tra le tentazioni surrealiste di citazioni felliniane e l'indiscussa abilità nella rappresentazione del vuoto pneumatico di esistenze alla deriva.
Pur riconoscendo la coerenza di un registro che difficilmente gira a vuoto o mostra segni di cedimento e pur rivelando il talento artigianale di riuscite folgorazioni visive (dalle divertite coreografie di esorbitanti (allegre) festicciole mondane all'eccentrico situazionismo di un improbabile avanguardismo, dalla ritualità confessionale della chirurgia estetica al marketing spirituale di una beatificazione secolarizzata), il limite fondamentale del film di Sorrendino risiede nella stucchevole verbosità di una sceneggiatura che sembra avvitarsi su se stessa riproducendo, nell'insistito soliloquio della voce off, l'inutile chiacchiericchio che tenta disperatamente di esorcizzare con l'ossessiva proliferazione delle immagini (142 minuti sono una misura spropositata), riducendo e banalizzando le allarmanti implicazioni di un irrimediabile nichilismo sociale ('Proust scrive che la morte potrebbe coglierci questo pomeriggio') alla sterile esibizione di un prevedibile narcisismo autoriale (Cannes, comunque, non ha gradito più di tanto). Se è vero in ogni caso che il protagonismo sopra le righe di un Servillo in versione radical chic ricorda i divertenti vezzi di un novello De Curtis (senza la tara nobiliare e la mordace autoironia di quest'ultimo) e le nevrosi di un Verdone in perenne crisi creativa hanno fatto il loro tempo, rimane apprezzabile il tentativo di animare una variegata galleria di caratteri dell'effimero che non risparmia tanto le ridicole velleità della nomenklatura intellettuale e politica tanto la boriosa spocchia di un porporato gaudente e materialista. A furia di metafore e simbolismi, di piani sequenza lungotevere e suggestioni architettoniche di una Roma da 'sindrome di Stendhal' tuttavia il nostro finisce per raschiare il fondo del barile, restituendoci l'immagine di un nulla cinematografico degno di miglior sorte. La grande bellezza, l'esperienza irripetibile di una lontana giovinezza 'che si fugge tuttavia' o di un'estasi francescana di uno stormo di cicogne svolazzanti nell'aurora di un'estate romana,  almeno per il momento,  può attendere.

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