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La grande bellezza

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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La recensione su La grande bellezza

di ROTOTOM
9 stelle

Ridere tra i ruderi, assumendone i contorni scavati dal tempo e farne una virtù sfuggente e chiassosa. Feste tribali dalla funzione apotropaica rimbombano nella giungla inerte di sassi e marmi fissi sul passato, memori dello sfarzo e testimoni dello sfascio.



Le facce, a ritmo di ostentate disarmonie postmoderne, stirano ferite mai più cicatrizzabili mentre qualcosa aleggia nell’aria, una decadenza incipiente come una calvizie coperta alla meno peggio da riporti di felicità a tempo.

La grande bellezza è un film di una bellezza grande, poiché impalpabile, come il tempo che minuto dopo minuto rosicchia la vita , sfoglia la pelle mostrando il peccato, seppellisce le ambizioni e fissa i ricordi come unico appiglio a cui rivolgere gli sguardi stanchi. I rintocchi quotidiani del pigro sole romano scandiscono l’avvicinarsi della fine, dopo la quale, tutto sarà stato vano.



I personaggi di Sorrentino ambiscono all’immortalità ,  come macerie moderne tra ruderi classici, ma l’eternità di Roma non filtra per osmosi nella carne corrotta della borghesia annoiata che veleggia sui tetti romani. E’ un’umanità diluita tra feste cafone, goffi sentimenti imprigionati tra oscene ricchezze e pietosa indigenza morale.  



Decadenza, questo è quello che Sorrentino filma con una macchina da presa mobile, vitale , mai domata dall’imbruttimento calcificato delle cariatidi impestate di botulino. Dietro la decadenza, sfuggente, si cela la grande bellezza, la ricerca di qualcosa sfuggito troppo presto, nascosta nei sogni, sepolta dai ricordi.
La grande bellezza è la gioventù , la freschezza acerba dei sentimenti semplici, mai aggrovigliati da prelibatezze verbali di intellettuali tediati dalla vita. La bellezza è quella di Roma, al mattino, irrorata di sole e ancora non in preda alle urgenze quotidiane del suo popolo.



La decadenza dell’impero d’occidente si avverte nel grottesco snob dei riti pagani che si confondono a quelli religiosi, ognuno a suo modo ridicolo, ognuno a suo modo profondamente radicato nella cultura che ne assorbe senza vergogna i rispettivi pregi e difetti facendo di tutto un para-culto a  misura di vita, autoassolvente e lenitivo delle mancanze del corpo e dello spirito.

Tra nani e ballerine il disgusto si trasforma piano piano in accettazione di una realtà abnorme e distratta, ipotetica come da emanazione sulfurea dell’eccesso in cui il ridicolo convive col sacro in un unico magma che mischia e accomuna i rispettivi contorni. E come il placido Tevere, quell’onda dal marciume dolce trascina via i suoi giullari che si credono re in un corteo bizzarro , in una continua parodia carnevalesca della vita.



Il continuo ondeggiare tra cultura e sfacelo, religione e blasfemia; la continua ricerca di immagini , splendide che possano testimoniare l’abisso; il solenne omaggio all’immenso innervato da meschine piccolezze; il rimbalzo assiduo tra ciò che è Alto – la solennità della cerimonia cinematografica -  e  Basso – il contenuto ammorbante - , fanno de La grande bellezza un potentissimo affresco della nostro tempo, astrazione intellettuale della vita nella quale i personaggi diventano figure archetipiche nipoti  della cultura classica scolpita nei monumenti capitolini, ma camuffati , nel corpo e nell’anima, da testimoni di un futuro che in realtà nessuno è più in grado – o non ha più voglia – di vedere.



 

La grande bellezza è un film senza una storia, e questa è la grande bellezza del cinema: poter evocare emozioni senza il legacci della narrazione , senza che i dialoghi indichino la via , senza risoluzioni finali catartiche o solo conciliatorie.
Strappi e rallentamenti, intuizioni fulminanti composte in  parentesi  esistenziali fustigate da un’ironia nervosa e accostate tra loro in unità di luogo e di tempo quasi casuali. Solo la morte scandisce gli stacchi, ma anch’essa è trattata senza pietà, come un’arzilla signora dell’altissima borghesia che aspira al botox per lisciarsi un’anima decrepita.
Tempi comici perfetti strappano il riso in istantanee di lucida perfidia e  la ciancia annoiata di tanto in tanto affila un sarcasmo scorretto, brutale.
Squarci di verità. Squarci di bellezza. La grande bellezza è un film enorme, che ricorda Federico Fellini e lo smentisce. La festa ora non finisce mai, come un assolato estenuante pomeriggio estivo, continua nonostante sia palpabile la fine. Il melanconico testimone dei festoni abbandonati viene sostituito da un’ottusa apnea esistenziale che omaggia continuamente se stessa. Il livore patrizio esibito con borghese bon ton dai personaggi abbarbicati sui tetti ricorda La terrazza (1980) un capolavoro di ironia di Ettore Scola, anticipatore illuminato del degrado contemporaneo.



Sorrentino è in possesso di una tecnica superba che mette al servizio del suo personale omaggio al presente, così lucido ed elegante nel demistificare santi eroi puttane e suore, personaggi grotteschi ma mai grassi, fini nella caratterizzazione. La romanità di Roma è espressa con i toni che merita, questa città che resiste ai suoi cortigiani , ai guitti che si intrufolano nei suoi pertugi e poi scompaiono nel tempo fagocitati dalla Storia.
Sabrina Ferilli è mostra di sé e musa della capitale, perfetta per incarnarne la polpa e lo spirito per poi , come tutti gli altri personaggi, scomparire nel nulla.
Così come  Carlo Verdone, fuori posto, fuori testo, incompiuto romano che non ha capito la sua Roma e che si ritira nel buio. Il punto di vista è quello di Jep Gambardella, (Toni Servillo) scrittore e giornalista con attico con vista Colosseo.
E tutto il resto è un trucco, come una giraffa che sparisce tra i resti di una Roma più antica di qualsiasi sogno.  

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