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La grande bellezza

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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La recensione su La grande bellezza

di chinaski
6 stelle

La grande bellezza rimanda subito a una questione estetica. Di quale bellezza parliamo? Sicuramente di una bellezza formale, quella del linguaggio cinematografico di Sorrentino. La Roma mostrata, cornice e a tratti protagonista della pellicola, si manifesta nei suoi monumenti (subito riconoscibili), nei palazzi e nei terrazzi, nei luoghi sconosciuti dove si svolgono le feste dell’alta borghesia e della misera umanità che vi partecipa (non è un caso che il film si apra con una citazione di Céline), un’umanità che nel suo degrado si contrappone all’immutabilità estetica della città eterna, sarebbe bastato che Sorrentino avesse portato la sua macchina da presa un po’ più lontano da Trastevere e dal centro storico per accorgersi anche di un altro degrado, urbanistico e architettonico oltre che morale, ma c’era già chi prima di lui aveva intuito queste cose. Una Roma fantastica e onirica, dunque, imprigionata in uno sguardo che sembra percorrere le sue forme in maniera decadente, dove l’eccesso di abilità tecnica e la superbia artistica del regista frantumano le sequenze in una serie isterica di movimenti di macchina, dolly, carrelli e panoramiche, che non finiscono mai per ricostruirsi in un’insieme nella mente dello spettatore ma rimangono schegge visive di un bel quadro andato in mille pezzi, ne possiamo cogliere in maniera improvvisa un barlume di splendore ma questo subito svanisce e rimane il baratro del vuoto ad attenderci. Si insinua il dubbio che dietro le maschere o il trucco della narrazione e quindi anche del cinema non vi sia nulla, che la messinscena in se stessa sia il significato ultimo dell’opera di Sorrentino, infarcita qua e là di alcune frasi ad effetto, banali verità dette da bocche banali, alcuni brividi li regalano il personaggio interpretato da Tony Servillo (Jep Gambardella) o le sequenze in cui la musica e i personaggi, durante le feste, trovano una loro armonia nei gesti e nei movimenti, anche se nascono dalla volgarità di corpi  disfatti o troppo perfetti e dalla musica commerciale che li mette in moto. Jep Gambardella cammina a suo agio tra le rovine del suo mondo, cinico e disincantato, percorre strade vuote perso nei suoi pensieri, che diventano voce narrante, una riflessione su quello che ha intorno, su ciò che vede, un’altra inutile testimonianza di vite che non vanno da nessuna parte, come gli alcolici trenini fatti sulla sua terrazza davanti al Colosseo, durante uno dei suoi party. E intorno a lui una serie di derelitti, falliti, sante e stronze, persone che hanno perduto qualsiasi senso della realtà e si sono rinchiuse in un’esistenza fatta su misura per loro, mostrare tutto questo significa, allo stesso modo, rifugiarsi in quel mondo, non tanto per criticarlo o distruggerlo, quanto per renderlo terreno fertile per una sua possibile rielaborazione narrativa. Ed è allora la fantasia di Sorrentino a condurci insieme a Jep per le strade di Roma, la sua privata visione di questa città. Il cinema del regista, incapace di contenersi, aggiunge continuamente immagini su immagini, in un onanismo visivo che sembra produrre orgasmi estetici per il solo piacere di chi li ha diretti, si rimane anche attratti da un cinema così ricco, pretenzioso, articolato nel suo linguaggio, ma se poi non c’è niente che pulsa e soffre sotto la superficie delle immagini, allora di tutta questa bellezza non sappiamo proprio che cosa farcene.

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