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To the Wonder

Regia di Terrence Malick vedi scheda film

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La recensione su To the Wonder

di ed wood
3 stelle

Doveva essere la brutta copia di “Tree of life”, e così è stato. Nessuna sorpresa rispetto alle attese. Purtroppo. Il predecessore (pur controverso nella sua piena ed enfatica adesione ad una visione autenticamente religiosa dell’esistenza) partiva da un concetto filosofico e teologico, l’opposizione fra Natura e Grazia, e da questo sviluppava una fertile dialettica, attraverso non tanto la trama o i contenuti quanto la ricerca formale. Là vi era un lavorio della mdp e del montaggio, volto a scardinare, mettere in discussione, fino a negare una idea patinata di Bellezza: la Natura era bella ma falsa, corrotta, e l’incessante movimento della sonda-cinema ricercava la purezza, la Grazia, per tentare di separarla dal Male. Era un cinema che partiva da presupposti teorici, da categorie concettuali e spirituali, e i personaggi e le loro vicende erano un mero supporto concreto e “terreno”. In “To the wonder” cambia tutto. C’è una storia d’amore delle più classiche: alti e bassi, passione e rottura. C’è una molteplicità di luoghi, domestici, naturali, turistici, ricreativi, sacri. Lo sguardo di Malick non ha limiti: è lui il Dio onnisciente ed onnipresente. Già questo aspetto certifica l’arroganza estetica dell’autore: la presunta Grazia in “To the wonder” viene spiattellata dalla prima all’ultima inquadratura. Non c’è ricerca, non c’è pazienza. E’ un cinema “massimalista” nell’accezione negativa del termine: un immaginario inesistente, proprio perché riempito da qualsiasi cosa, indistintamente. “To the wonder” è forse il film meno parsimonioso degli ultimi anni: ti dà tutto gratis, ma è robaccia. E’ quella “bellezza falsa e corrotta” che lo stesso Malick, solo un anno prima, aveva avuto il coraggio e la forza di scalfire nell’ottimo “Tree of life”. Le immagini di “To the wonder” sono tanto più brutte e meschine quanto più apparentemente belle e curate. Qui sì che abbiamo quell’estetica pubblicitaria, patinata, new age, da cartolina, da National Geographic etc…di cui parlavano, a mio parere ingiustamente, i detrattori di “Tree of life”. Il cinema è un Arte e come tale deve avere una forma. Per la sua peculiare natura, la forma cinematografica si sviluppa nel Tempo. In questo film, il Tempo non esiste: i cut del montaggio e le scelte di inquadratura non rispondono ad alcun tipo di discorso poetico, ma vengono piazzati alla rinfusa per cercare presuntuosamente di rappresentare il Tutto. Peccato che in assenza di una struttura, di una impalcatura concettuale, di una forma, quel Tutto non esprima nulla. Non c’è giustapposizione intelligente e creatrice di senso, nemmeno fra immagine e suono: c’è solo caos e casualità. Esempio: durante il discorso del marito con l’avvocato divorzista, scorrono le immagini di lei ripresa dalla soggettiva di lui, mentre corre all’indietro su un marciapiede. Ecco, presa singolarmente questa scena rende efficacemente una di quelle situazioni in cui il pensiero viaggia verso luoghi antitetici a quelli del presente (ricordare un attimo felice mentre il presente offre solo afflizione). Il problema è che di momenti del genere ce ne sono decine in tutto il film! E allora tutto perde senso. Non vale nemmeno la pena di analizzare le singole sequenze. Purtroppo però, “To the wonder” non è solo un film sbagliato, presuntuoso e fallimentare. E’ anche terribilmente mediocre nel riciclare stereotipi letterari e iconografici: da “l’amore che ama” (!) alla ricorrente, stucchevole immagine della protagonista che corre, scappa, saltella ovunque, cammina su colline e spiagge allargando le braccia ad albatross (un’immagine buona forse per Instagram, non certo per il cinema!). E da mediocre, “To the wonder” diventa ignobile quanto raffigura una provincia americana che non esiste neanche nella testa di Ned Flanders, quando inscena un grottesco dialogo fra due belle “gnocche” (non saprei proprio come altro definirle, in quel contesto) in cui una suggerisce all’altra di cambiare vita, intanto che è giovane e bella; per tacere poi dell’improbabile parroco Javier Bardem e della sua schiera di storpi (contrapposti alla salute “ariana” dei bambini di buona famiglia), un colpo basso da pietistica pubblicità regresso. In questo autentico naufragio, posto che Ben Affleck avrebbe potuto anche essere rimpiazzato da un palo (ma non è neanche colpa sua), l’unica ragione per vedere il film resta il volto e il corpo della favolosa Olga Kurylenko, lei sì una grazia. 

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