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Después de Lucia

Regia di Michel Franco vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Después de Lucia

di lostraniero
8 stelle

Il cinema di Michel Franco procede per deiscenze. Non credo lo si possa descrivere, catalogarlo è l’impresa meno fortunata a cui si può prestare uno spettatore. Sprovveduto o furbo che sia. La furbizia – che qui non viene tirata in ballo senza averne pesato ogni grammo di senso e di segno – attraversa come un cavo ottico questa dramma messicano, portando con sé una quantità di dati che alla fine lasciano alla ferita aperta del nostro occhio che vede, due speranze sole. Che la sutura dell’appena visto tenga, e che quindi si sollevi la giusta osservazione che la storia di Alejandra e del gruppo dei suoi aguzzini è un meccanismo narrativo già ampiamente sfruttato, e che qui addirittura viene portato a livelli di pressione e di realismo tali che tutto muta (in poche battute, a dire il vero) in una inverosimiglianza salvifica. O, al contrario e per conosciuta dolenza, che le pareti interne del nostro intestino di consumatori di cinema non riescano a sopportare l’urto. E si aprano. Portando alla luce le viscere di questo male incurabile, che è la nostra scomposta casa d’esistenza. Ciò che ci contiene. Grigia, informale come le stanze spoglie in cui vediamo muoversi padre e figlia all’inizio di questo film (è Alejandra che fa notare all’uomo, la mancanza di decorazioni sulle pareti; il bisogno di ‘graffiare’ di segni la superficie invalidante della realtà); il modernismo azzerato di un gusto contratto – mai rarefatto – in cui l’opulenza sacrifica ogni virtù, in cui il consumo (di merci, di attimi, di vite), avviene non col disincanto e la meraviglia ma con il dominio del mezzo sull’uomo. E, grazie a questo dominio tecnico, la stessa idoneità a condizionare la dignità dell’altro è il frutto di meccanismi autistici – telefonini, reti informali, supporti digitali –, mai uno scontro paritetico di forza mostrata e dimostrata. La vigliaccheria del male, parafrasando a sproposito la Arendt, è una memoria remota. Un file disperso e moltiplicato all’infinito che autorizza il solicidio. O il genocidio. In questo nuovo impero d’autorità, alcune istituzioni primarie – come la famiglia o la scuola – non riescono più a penetrare. Esse sono al di fuori e aldilà della dinamica del ruolo. Una – l’ambiente parentale – è condizionata dallo stress dell’assenza o della ‘troppa’ presenza delle figure unitarie (qui è la madre ‘mancante’, uccisa da uno scarto di guida, da un altro errore nell’uso tecnico di un mezzo). L’altra – il tirocinio educativo – appare curante regole di comodo, che la facciano apparire e non essere luogo di controllo degli svolgimenti affettivi ed anaffettivi. Misurare nel piscio di un’adolescente la sua ‘colpa’, appaga più che traguardare la solitudine dei gesti di ragazzi già senza più coscienza. C’è qualche operatore che non crede alla versione dei fatti, che ha il dubbio che ciò che avviene tra le mura dell’interno formativo non sia ciò che quel microcosmo vuol fare trasparire. Ma nulla fa o può fare per conoscere la verità. Nulla smuove il padre per far luce dentro alla matassa di silenzi e di risposte sibilline della figlia. Roberto, alla fine, dà la netta impressione di essere un uomo che sa solo prendere in ostaggio i suoi simili. Usando l’amore per qualcuno e adoperando l’odio per altri.

Nulla interviene perché la sinfonia perfetta orchestrata da Franco verso l’apice registico, possa trovare ostacolo. La scena notturna sulla spiaggia di Veracruz è di un nitore assoluto, di una capacità drammatica unica. Consapevole. Una morte-parto che toglie alla storia una vittima (la figlia), per darle in cambio un carnefice (il padre). Stavolta cosciente. Ordinato. Assoluto.

Il ciclo della deiscenza è così concluso, con quel tragitto in mare che mentalmente e fisicamente riapre vecchie ferite sudamericane. Rende l’idea delle vie traverse, difficilmente catalogabili, attraverso cui il cinema di un regista interessante come Franco può giungere ad una perfezione narrativa che – con curiosità – attendiamo, qui seduti sulla soglia del male. Che forse altro non è che un ingrediente come tanti nella vita. Come dice Roberto ad un suo sottoposto in cucina: “Se non sai cos’è, come fai a prepararlo?”.

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