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La strada senza fine

Regia di Mikio Naruse vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La strada senza fine

di precint13
8 stelle

Dei cinque film muti sopravvissuti di Naruse, La strada senza fine (1934) è l'ultimo e indubbiamente il più ambizioso. Non il più bello, titolo che probabilmente spetterebbe a Sogni di una notte (1933), ma sicuramente l'unico capace di figurare una sintesi contenutistico/figurativa della sua opera precedente e, contemporaneamente, di proiettarsi al futuro, ai capolavori dei decenni successivi.

Il plot è più complesso e articolato rispetto ai quattro film antecedenti, favorito anche da una durata sensibilmente superiore. Se la storia di Sugiko, povera cameriera con il sogno del cinema, che, incamminatasi per onorare un rendez-vous con il fidanzato, viene investita dall'auto del ricco Hiroshi e finisce per sposarlo e fare i conti con le angherie della suocera e della cognata (incapaci di accettarne la parca estrazione sociale) è piuttosto macchinosa e poco originale, a colpire è la straordinaria concertazione del comparto figurativo. Il ricorso a focali corte per consolidare l'impatto della profondità del campo e i movimenti di macchina squisitamente orchestrati (di cui Naruse aveva già dato grande prova in Senza legami di parentela) testimoniano una maturità formale che non sarà sempre pareggiata anche nella lunga e assai prolifica carriera sonora. Straordinario è il ritratto “filmico” del distretto di Ginza a Tokyo: campi lunghissimi incantevoli, cambi di prospettive che non si limitano all'alternanza scolastica di campo frontale/controcampo laterale ma che spesso scardinano la barriera “ottica” per entrare al centro della scena (o meglio, del proscenio), un uso straordinario della luce naturale negli esterni in notturna, un montaggio capace di movimentare il contesto urbano che crea assonanze con il cinema di King Vidor (facile pensare a film come La folla o Scene di strada).

È proprio questa attenzione alla descrizione delle condizioni socioculturali – per giunta spesso suggerita per ellissi o filmata in campo lungo – a riscattare un soggetto che nella netta bipartizione narrativa (quartiere povero/famiglia ricca) pare fin troppo essenziale e stringato (e la descrizione della famiglia Hiroshi, con le invidie e le gelosie di madre e sorella nei confronti della protagonista/parvenu, è fin troppo evidenziata). Sono molti i riferimenti alla cultura occidentale (e in questo film sono soprattutto i più abbienti a subirne l'influenza): l'automobile che diventa simbolo del progresso urbano, Maurice Chevalier al cinema, il sogno di diventare attrice ecc. Tutti dettagli che aiutano Naruse a cogliere piccoli squarci su tela di un Paese in cambiamento, con le sue fenditure, le sue lacerazioni, la progressiva separazione verticale tra classi.

Caratterizzato dalla consueta, vitale delicatezza e dall'ennesimo straordinario ritratto femminile, La strada senza fine segnò la fine della tormentata collaborazione tra il grande cineasta giapponese e la Sh?chiku, che erroneamente vedeva in lui un secondo Ozu (anche se, casualmente, il finale di questo film è il più “ozuiano” tra quelli che mi è dato conoscere della filmografia di Naruse). Cineasta inesauribile e fecondo, il suo estro creativo si sarebbe esaurito solo con la morte.

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