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Looper - In fuga dal passato

Regia di Rian Johnson vedi scheda film

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La recensione su Looper - In fuga dal passato

di scapigliato
8 stelle

Se è vero che con il western si può dire tutto quello che si vuole e raccontare tutte le storie che si vuole raccontare, è anche vero che questo si può più o meno fare con altri generi cinematografici. Su tutti, l'horror e la sci-fi. E cosa non è Looper se non un western?
A parte qualche operatore fantascientifico, come la macchina del tempo, la spingarda o le moto volanti e la telecinesi, il resto del film ha un impianto western, tra il vengeance e l'hunting, oltre che ad una messa in scena che del genere ricorda molto gli spazi aperti e piatti, i duelli nell'orizzonte del deserto e le numerose sparatorie. Può essere una lettura facile, quella di Looper come di un western criptato, ma dopotutto è il genere stesso, il western, ad essere alla base della quasi totalità dei generi maschili-avventurosi che l'hanno seguito. Dall'avventuroso tout-court, al bellico, al noir, al poliziesco e all'on the road, sono tutti generi che del western prendono, se non addirittura l'iconografia sua peculiare, almeno l'impianto narrativo e le conflittualità che propulsionano l'azione. Perché allora non poterlo fare anche con l'horror e la sci-fi? Solo per citarne due esempi tra i più autorevoli, cosa sono Vampires (1998) e Ghosts from Mars (2001) di John Carpenter se non due western vestiti uno di horror e l'altro di sci-fi – anche se un po' tutti i film di Carpenter sono in debito con il western.
In Looper il regista Rian Johnson utilizza la fantascienza per dire altro. Se uno dei temi più trattati dal cinema è lo scorrere del tempo, la sua riproducibilità, il cambiamento inesorabile e la corruzione del corpo col passare degli anni – In Time (2011), Ricomincio da capo (1993), La Ballata di Cable Hogue (1970), La morte ti fa bella (1992) – l'ossessione per poter controllare il tempo, sconfiggerne la corruzione o almeno esorcizzare la morte, vezzo ultimo dell'implacabilità del dio Crono, sono quindi le iperboli di tale tema. Dopotutto il cinema è la narrazione di un tempo. Narrare quindi di una sfida contro il tempo – Nick of Time (1995) – o usare un altrieri per ritrovare una nuova virginale temporalità – il western tutto – oppure sconfiggere la mostruosità del tempo che ci uccide – gli horror dallo slasher in su – è prerogativa specificamente cinematografica, e lo conferma il linguaggio stesso del cinema impostato prettamente sulle tempistiche – il cinema è sintesi, tempi di esposizione, durata assoluta di un'inquadratura, tempo di lettura dell'inquadratura: la percezione e la fruizione di un film si esauriscono attraverso operazioni di tempo. Inutile quindi fingere che quando un film riflette sul tempo è come se riflettesse su se stesso e il suo ruolo all'interno del mondo delle forme di rappresentazione.
L'uso quindi che Johnson fa del tempo e delle sue inquietanti interrogazioni – giusto o sbagliato rompere il cerchio, il ciclo della vita? Accettare o rifiutare l'invecchiamento e la fine biologica? Uccidere il puer salva il senex? - è un uso consapevole, magari poco filosofico e più fisico, ma sicuramente affronta la dialettica tra tempo e percezione del tempo, con il suo potere e il suo valore politico, in modo schietto e palpitante, con un trasporto esistenzialista che rivive nella fisicità della storia e della figurazione dei suoi eroi. Sia Joseph Gordon-Levitt sia Bruce Willis sono abili nel giocare il proprio corpo all'interno di una vicenda sottilmente filosofica.
L'ex marchetta di Mysteriuos Skin (2004) è oggi uno dei più talentuosi attori della sua generazione, qui bravissimo a imitare il compagno di set Bruce Willis che rivive così nei panni del suo doppio ancora giovane. Il corto circuito da cui ci hanno sempre messo in guardia qualora incontrassimo il nostro doppio in una scorribanda temporale, qui è annullato dall'ossessione per la sopravvivenza. Non c'è altro bersaglio che uccidere tre piccoli bambini perchè uno di loro, nell'imminente futuro, sarà uno spietato sterminatore e rovinerà la vita al vecchio Joe/Bruce Willis. Questa disturbante mission di cui si fa carico uno degli eroi muscolari più amati anche dalla critica, è il nerbo dell'intero film, l'elemento narrativo intorno a cui si impostano le svolte e tutti i rapporti di causa ed effetto. Nonostante la scena in cui Willis uccide il primo bambino – lui che ne ha salvati tanti come in Codice Mercury (1998) o The Sixth Sense (1999) – non abbia lo stesso pathos tragico, la stessa orribile rivelazione e la stessa ansiogena preparazione linguistica che ha la scena in cui Henry Fonda uccide il piccolo McBain in C'era una volta il West (1968), riesce ugualmente a impostare il personaggio di Willis in un'ottica antieroica tale da portare la riflessione sul tempo e la morte di cui prima, su termini profondamente etici che scalzano le elucubrazioni filosofiche in nome di un'istintualità atavica di sopravvivenza dura a morire.
Gordon-Levitt tiene testa al vecchio Willis con la bravura e il carisma di un attore giovane, ma maturo, anche se non può nulla nel confronto fisico con il vero "last action hero" della storia del cinema – i Crowe, i Butler, i Diesel non possiendono la qualità di Willis: o sono troppo mosci e autoriali per l'action-movie da cassetta, cosa che Willis non è, oppure sono solo muscoli senza grandezza autoriale, cosa che Willis non è. Il duello finale è infatti a totale appannagio di Gordon-Levitt che, benché un po' irrigidito dal trucco e dalla mimesi, è sempre uno spasso. Le sue smorfie, il suo viso che tradisce il distacco del suo personaggio dal mondo in cui abita, restano dei marchi di fabbrica importanti autorialmente, mantenendolo sempre una spanna sopra ai comprimari, in questo caso oltre a Willis anche Paul Dano, Jeff Daniels e Noah Segan.
Tutto da godere il finale. Location, tempistiche, ritmi, coté horror ereditato dai poltergeist, tutto contribuisce ad accumulare tensione e curiosità, vanificati però dall'unica soluzione possibile. Un happy-end mascherato da coraggioso, che se non fa la felicità totalizzante della pellicola non la dequalifica nemmeno, lasciandoci Looper come un ottimo prodotto di intrattenimento, fatto con cura artigianale, ben interpretato da attori di razza e con ambizioni tra il filosofico e l'etico che lo rendono interessante e aperto a più interpretazioni.

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