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Elefante blanco

Regia di Pablo Trapero vedi scheda film

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La recensione su Elefante blanco

di Peppe Comune
8 stelle

L’elefante bianco è il nome dato a quello che doveva essere il complesso ospedaliero piu grande, non solo dell’Argentina, ma di tutta l’America Latina. Iniziato nel 1937 sotto l’impulso del Socialista Alfredo Palacios, il progetto è proseguito per fasi alterne per circa un ventennio fino ad interrompersi del tutto con il golpe militare del 1955 che decretò la fine del governo di Juan Domingo Peròn. Da allora l’imponente complesso ospedaliero è rimasto un ammasso di cemento spoglio, trasformandosi negli anni nel centro nevralgico di una baraccopoli popolosa dove sono confluiti migliaia di poveri cristi i quali, se non hanno ottenuto un luogo dove farsi curare degnamente, hanno trovato almeno un tetto sotto cui ripararsi. Villa Vergen si chiama l’immensa Bidonville, situata alla periferia di Buenos Aires. È qui che operano Julien (Ricardo Darin) e Nicolas (Jérémie Rénier), due missionari pervasi di tante buone intenzioni. Julien è da anni il parroco della Chiesa del Cristo Operaio fondata da Padre Carlos Mugica. Ha da poco scoperto di avere un brutto male, ma questo non frena il suo impegno. Approfittando dei rapporti diretti che intrattiene con i politici locali e le alte sfere della gerarchia ecclesiastica, Julien lavora per far si la struttura ospedaliera abbandonata si trasformi in un centro residenziale capace di ospitare le numerose famiglie che popolano la degradata baraccopoli. Ma non è facile mettere in pratica questi intenti perché i gestori del potere non sono animati dal suo stesso spirito volontaristico. Nicolas, invece, è appena arrivato da una sofferta missione nel cuore della foresta amazzonica dove è rimasto l’unico superstite di una mattanza paramilitare. Trova la forza di ricominciare nell’aiuto di un vecchio amico come Julien, nella voglia di dargli una mano nella sua missione e nella vicinanza di Luciana (Martina Gusman), un’assistente sociale atea molto attiva sul territorio. Intanto che il tempo passa senza che nulla di concreto venga portato a termine, la rabbia del popolo di Villa Vergen aumenta e le bande criminali aumentano impunemente il loro dominio sulla bidonville. I padri missionari, aiutati da Luciana, devono districarsi tra mille difficoltà e i dubbi che assalgono la loro capacità di resistenza.

 

 

“Elefante Blanco” di Pablo Trapero è un film sociale dalla religiosità molto umana, un film che assomma riflessione sullo spirito cristiano e denuncia della povertà degli ultimi del pianeta, l’umana debolezza dei corpi ed elevata resistenza della fede. Con un senso del ritmo che non epura nelle esigenze spettacolari della finzione cinematografica la rappresentazione “realistica” di spaccati sociali molto attendibili.

“Non si sa precisamente quanti vi abitano, non sono censiti. Non c’è neanche nelle mappe. Noi facciamo il calcolo a seconda dei battesimi. Tra bambini, padrini, familiari, saranno 15.000. Ma tra tutti, nella baraccopoli, saranno il doppio, 30.000 circa”. Questo è quanto dice Julien a Nicolas, il nuovo arrivato, mentre fanno un giro perlustrativo a Villa Vergen, “la città occulta”, come viene chiamata, un “non luogo” dimenticato da tutti e da tutto, ricettacolo potenziale di ogni forma di degenerazione possibile, morale e materiale. Un luogo tremendamente visibile che gli occhi “benpensanti” della morale corrente si ostinano a non vedere. La violenza, il malaffare, i traffici illeciti, sono tutte cose che trovano una facile ospitalità a Villa Vergen, potendo contare, da un lato, sulla ricattabilità sociale di una vasta schiera di miserabili che ha imparato a predisporsi a fare qualsiasi cosa pur di garantirsi la sopravvivenza e, dall’altro lato, sulla complicità omertosa di una popolazione allo stremo che sente più vicine le attività criminose da cui può almeno sperare di ricavare qualche briciola che le istituzioni politiche che si sono sempre mostrate indifferenti riguardo le loro condizioni di miseria. Cose anche tollerate come calmiere sociale fintantochè non superano il limite della quiete sociale generalmente intesa. Aspetti questi comuni a molti luoghi sparsi per il mondo che si trovano ai margini del “grande splendore”, lontani dal benessere dispensato a gratis. Ma la particolarità di baraccopoli come Villa Vergen sta nel fatto che il rapporto speculare di vicinanza-lontananza tra le attività criminali e il potere legale è avvertito come una distanza che non potrà mai colmarsi. È come se le persone che la abitano fossero condannate dalla nascita a portare le stimmate distinguibili di una redenzione perpetua da scontarsi come ultimi tra gli ultimi.

 Tra queste persone e proprio nel cuore pulsante di Villa Vergen agiscono Julien e Nicolas, due preti animati di grandi spirito cristiano impegnati a fare della parrocchia del Cristo Operaio un punto di riferimento per chiunque voglia farsi promotore di una concreta speranza di riscatto per quel popolo di diseredati. La loro guida spirituale e Padre Carlos Mugica, in odore di santità per la sua opera misericordiosa in quelle terre, il loro fine è avvicinare ciò che è lontano presentandosi come dei buoni esempi da poter seguire. L’Elefante Bianco, il mastodontico complesso ospedaliero nato già morto, da un ammasso di cemento abbandonato, diventato un labirinto inestricabile dominato dalle bande criminali che vi compiono indisturbate ogni sorta di traffico illecito, potrebbe trasformarsi in una buona opportunità per offrire un abitazione dignitosa a tante famiglie baraccate. È lui l’anello di congiunzione lungo più di settant’anni tra ciò che doveva essere e non è stato, ciò che è diventato suo malgrado e quello in cui potrebbe essere convertito. È l’Elefante Bianco a misurare la distanza tra chi si impegna ogni giorno per cercare di invertire il corso della storia e chi ha tutto l’interesse a far si che le cose non cambino mai. La regia di Pablo Trapero è brava a farcela percepire come una cosa concreta questa distanza, facendo dei dedali dalla bidonville a cielo aperto abitata da persone mai censite, sconosciute al potere legale e dimenticate dal mondo, lo sfondo essenziale che lega le sorti esistenziali dei due preti con la complessa condizione sociale che caratterizza un luogo come Villa Vergen. La difficoltà immane dei due Padri sta tutta nell’incunearsi in questa complessità e presentarsi come dei missionari venuti a ridurre delle distanze attraverso la pratica delle buone azioni, come degli uomini portatori delle spirito cristiano e non come dei preti formalmenti ingabbiati nei precetti della Chiesa Cattolica (da veri fautori della teologia della Liberazione insomma). Loro si muovono tra un fatalismo imbevuto di atavica superstizione da dover correggere, la criminalità  ordinaria da dover arginare e l’indifferenza del potere politico ed ecclesiastico da dover sopportare come necessario strumento di compromesso. Un connubio che fa sentire tutto il peso dell’improduttività della loro missione, che fa emergere nitida la sensazione che si sta lavorando invano. È come un tarlo che si insinua furtivo a corrodere le fondamenta di un credo consolidato, ad insinuare il dubbio dove c’è solo la buona intenzione di aiutare delle persone ad emanciparsi da una condizione di miseria. “È facile essere un martire, un eroe anche. È più difficile darsi da fare ogni giorno sapendo che il tuo lavoro non ha senso”. Parole amare questa pronunciate da Julien, che se da un lato esprimono la natura profonda dalla sua fede, dall’altro lato sottintendono l’amarezza dell’uomo solo che sa di potersi perdere di fronte all’inconsistenza dei risultati ottenuti. Confrontarsi ogni giorno con le legittime richieste degli abitanti di Villa Vergen, lo sguardo dolente di persone di ogni età senza un’identità riconosciuta formalmente, la morte gratuita dispensata come un fatto ordinario e i gestori del potere che fanno solo promesse e concedono dilazioni, significa mettere continuamente sotto pressione la rigidità della propria fede. Significa misurare il grado di resistenza dei propri corpi con la voglia di riposo cui pure aspirano, corpi che, o minati dalla malattia o tentati dalla carne, rappresentano l’espressione palese di voler trovare anche in altri scopi la forza di continuare a combattere come sempre.

Pablo Trapero non specula mai sul binomio miseria-violenza, non spettacolarizza gli eccessi criminogeni presenti nella bidonville, non usa il degrado come arma di ricatto morale. Tiene tutto debitamente fuori campo, dosando a dovere tutti gli elementi presenti a Villa Vergen per farne un film sociale che diventa un modo per riaccendere i riflettori su realtà dimenticate sparse in giro per il pianeta e ragionare su cosa significa dirsi cristiani in un mondo in cui certamente non manca la produzione in serie della povertà. Un gran bel film di denuncia dall’America Latina.        

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