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Elefante blanco

Regia di Pablo Trapero vedi scheda film

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La recensione su Elefante blanco

di OGM
8 stelle

L’Elefante Bianco  sorge a Buenos Aires, ed è un mostro incompiuto. Nato da un progetto del 1937, avrebbe dovuto diventare il più grande ospedale dell’America Latina. Invece la sua costruzione venne interrotta più volte, per cessare poi definitivamente nel 1955, in seguito al colpo di stato che pose fine all’era peronista. Negli anni successivi, l’edificio, capace di ospitare trecento famiglie, venne occupato abusivamente ed intorno ad esso si formò un’estesa bidonville, la Villa Luro, con una popolazione di quindicimila, forse trentamila persone.  Julián e Nicolas sono due sacerdoti, ex missionari, che vivono in quel quartiere difficile, impartendo i sacramenti ed officiando i riti liturgici, ma soprattutto dirigendo un importante programma di riqualificazione urbanistica. L’obiettivo, da realizzare con la manodopera fornita dalla gente del posto, è quello di trasformare quel mastodontico scheletro in un complesso residenziale, svuotando buona parte delle baracche. Il loro lavoro è però ostacolato dagli intoppi burocratici, dalla criminalità organizzata, dalla crescente sfiducia degli abitanti della zona, che si manifesta soprattutto tra i giovani. I due uomini attraversano il degrado mentre sono a loro volta afflitti da crisi esistenziali, l’uno perché gravemente ammalato, l’altro perché assalito dal dubbio, e divenuto incerto riguardo alla propria vocazione. Per entrambi, il futuro nel quale, nonostante le circostanze avverse, stanno investendo tutte le loro energie, è una questione spinosa;  Julián vi vede soltanto la propria morte, mentre Nicolas vi comincia a scorgere l’amore per una donna, magari una famiglia, e la conseguente rinuncia alla propria missione religiosa. Intanto il loro impegno sociale tarda a mostrare i propri frutti, il marciume continua a dilagare, sottoforma di sporcizia materiale e di deriva morale, tra consumo e spaccio di stupefacenti, rivalità tra bande per il controllo del territorio, e barbari assassini compiuti per le strade. Avere una funzione e non poterla svolgere, sentirsi chiamati e ritrovarsi nel posto sbagliato: ad un decennio di distanza da El Bonaerense, Pablo Trapero ritorna sul tema  dell’alienazione professionale che estrania l’operatore dal suo operato, in un contesto in cui quest’ultimo sembra decisamente fuori luogo. Il poliziotto di allora ed i preti di adesso sono accomunati dallo stesso disorientamento, che li coglie nel passaggio dal mondo rurale all’ambiente cittadino. Nel film del 2002, il protagonista era un ragazzotto di campagna, iniziato al mestiere di fabbro, ma poi trasferitosi nella capitale per diventare agente di polizia.  Julián e Nicolas provengono da una lunga esperienza in Amazzonia, dove miseria e crudeltà sono all’ordine del giorno, ma perlomeno sono nemici dai tratti semplici, facilmente riconoscibili. Molto più complessa della giungla si rivela per loro l’intricata realtà del barrio, efficacemente rappresentata dalla struttura labirintica dei suoi vicoli, che sono, a seconda dei casi, formidabili vie di fuga o micidiali trappole. Nei suoi meandri serpeggiano la delinquenza ed anche il peccato, quello che cova con rabbia nelle viscere e si sfoga nei recessi di quei contorti gironi infernali, dove si ha l’impressione che nemmeno l’occhio di Dio riesca a distinguere i particolari. Julián bestemmia contro la fede, Nicolas viola la sacralità del suo ruolo. Sono i mortiferi effetti della stanchezza di assistere impotenti al proliferare del male, in mezzo all’indifferenza delle autorità, politiche ed ecclesiastiche. Nel 1974 padre Carlos Mugica, fondatore della loro parrocchia, dedicata al Cristo Operaio, fu vittima di un attentato, probabilmente per mano di estremisti di destra, ma il caso rimase irrisolto. Il suo martirio viene solennemente commemorato, ogni anno, ma sembra impossibile poterlo far vivere davvero, in quel mondo dimenticato e senza regole, in cui rimbombano, a tutte le ore del giorno e della notte, gli assordanti schiamazzi delle risse, soffocando la voce della verità. Il suono in presa diretta è impastato di polvere, di rudi inflessioni gergali, di sussurri che macerano confessioni pronunciate con un misto di vergogna ed amarezza. È la musica stridente di un’umanità a pezzi. Nata povera, e malata di un’assenza di luce che contagia anche le anime votate al bene. In quell’oceano di fango e calcinacci fermenta l’odore del sangue e della decomposizione, e la nausea sale alla gola. E la santità serve soltanto a fornire uno spunto per i raduni di piazza e per le processioni.

 

Questo film, presentato al Festival di Cannes 2012, ha ottenuto la nomination nella sezione Un certain regard.

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