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Il figlio dell'altra

Regia di Lorraine Levy vedi scheda film

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La recensione su Il figlio dell'altra

di fefy
6 stelle

Un altro film che sta alimentando un vero e proprio filone di genere.
A poca distanza dalle votazioni in Israele (22 gennaio) per il rinnovo del Parlamento, dove cinque milioni 650mila israeliani sono stati chiamati a eleggere i membri della knesset, l’assemblea nazionale con 32 liste in corsa e con sondaggi che davano Likud-Beitenu, del premier uscente Benyamin Netanyahu come nuovamente vittorioso, le cose sono andate diversamente sotto molti aspetti: una maggiore affluenza alle urne rispetto al 2009, compresa quella dei cittadini palestinesi israeliani, una campagna elettorale della destra basata essenzialmente sulla paura che non ha portato i consensi previsti, la discesa in campo di un nuovo e recente partito di centro, Yesh Atid (Esiste un futuro), guidato dal giovane Yaïr Lapid che ottiene ben 19 seggi e diventa la seconda forza politica del Paese ed infine, un centro sinistra che, sebbene frammentato, esce rafforzato  dalla competizione elettorale...

Una parentesi la mia per dire che il desiderio di una convivenza pacifica c'è, e lo si evince non solo dall’esito delle  votazioni ma anche dalla voce degli intellettuali e dalla voce più spesso pindarica della settima arte che a volte un poco esagera, instillando nei suoi film non poca retorica  e luoghi comuni per poi  arrivare all'happy end buonista…

Purtroppo non poche volte lo fa (e si badi bene, i registi sono di solito israeliani) con un'irritante sorta di autocolpevolezza di fondo dando voce solo a coloro che sarebbero le vittime, dimenticando un bel pezzo della storia, della loro storia!!!semplificando e parafrasando. La parafrasi è una generica rielaborazione di un evento, sempre ben noto, raccontata ed effettuata da un autore diverso della storia. Già, la storia. Ma eviterò polemiche, limitandomi a dire che da entrambe le parti ci sono responsabilità anzi vi sono da tutta la comunità internazionale.

Ma per dio, non dimentichiamo mai che dall'inizio dei secoli le terre chiamate poi come si voglia Israele o Palestina erano terre abitate dagli ebrei, più volte cacciati e perseguitati, costretti a diventare vero e proprio popolo nomade stanziato qua e là per l'Europa dell'est, ma anche occidentale (poi fino agli USA e sud America).  Gli ebrei, (ma questo è argomento complessissimo e ci vorrebbero centinaia di pagine) non sono coloni, come possono esserlo stati i francesi in Algeria, sono nativi, sottolineo nativi di quelle terre. Cacciati a più riprese e poi dopo l'orrenda Shoah, molti sono legittimamente tornati nelle loro terre, nelle terre dei loro antenati. La mia è ovviamente una semplificazione del problema, ma lo è a mio avviso anche quello di considerare sempre e comunque i Palestinesi come vittime. Quanti soldi stanziati dall'Europa sono stati investiti da quel delinquente di Arafat in armi e guerre invece che in cultura, università per il proprio popolo. Si sa i veri dittatori vogliono i propri sudditi ignoranti, e l'ignoranza porta sempre pregiudizio e conflitti. Porta alla lunga povertà. Il popolo Palestinese è stato a più riprese strumentalizzato dai propri gerarchi ma non solo anche da altri arabi. Sono stati usati come scudi umani. Se chiedi a un egiziano a un siriano a un arabo in generale  cosa pensa di un palestinese ti dirà che è un poveraccio, una sorta di umano di serie B e la colpa la darà ovviamente agli ebrei...eppure non è tutto così semplice . Il vero problema è che la storia sembre  non servire  a niente, non ha insegnato (speriamo di no ma ho dei dubbi) niente. La gente ignora la storia, preferisce schierarsi di qua o di la, prendendo un pacchetto preconfezionato di fatti e gettando merda sull'uno o sull'altro popolo senza STUDIARE senza SAPERE , senza la STORIA!!

Il lavoro di Lorraine Lévy "Il figlio dell'altra" si affianca molto bene ad altri film che hanno affrontato i problemi di quella terra, come Il giardino dei limoni, La sposa siriana, Il responsabile delle risorse umane, tutti del regista Eran Riklis e tutti caratterizzati da un grande desiderio di convivenza pacifica e di dissoluzione dei conflitti in nome della comune appartenenza a un’unica grande famiglia, quella umana. Tutti gran bei film. Il film della Lèvy però, pur ottimamente recitato (splendida a Devos) è comunque anni luce distante dalla bellezza di film di Riklins.
Interessante il soggetto della Lèvy,  che però non viene sviluppato a sufficienza. La regista  francese ma ebrea di origine, usa un espediente narrativo singolare per portare alla luce le tensioni fra i due popoli: 17 anni prima due donne, una ebrea e l'altra palestinese, si sono trovate a partorire all'ospedale di Haifa sotto i colpi degli scud ai tempi della prima guerra del Golfo e che nel trambusto i due neonati sono stati scambiati.  Si tratta di una ipotesi limite (a cui l'autrice aggiunge la strana coincidenza che i componenti delle due famiglie sanno parlare francese, per rendere più fluidi i dialoghi) "ma possiamo- come ha detto Lamberti- senz’altro stare al gioco dell'autrice perché come lei stessa ha detto, “il mio film é un invito alla speranza”: l’impegno cioè di mostrare come persone oneste e sensibili che hanno la sventura di far parte di due popoli che da secoli si fronteggiano, riescano a reagire di fronte a una situazione eccezionale in un contesto sociale così difficile. Bellissime intenzioni, la regista mostra senza reticenze l’attuale difficile convivenza fra israeliani e palestinesi ma crede fermamente nella maturazione delle coscienze di tanti uomini di buona volontà presenti in entrambi i fronti (così tanti?). Ma troppo buonismo e luoghi comuni e una maniera un po’ troppo semplicistica con cui le situazioni si risolvono alla fine del film lo rendono davvero un po' troppo non direi superficiale ma almeno semplicistico. In ogni caso questo film più che un film riuscito se non altro è un ottimo spunto di riflessione, e forse un inno a sperare che le nuove generazioni portino nuova pace.

I giovani dall’una e dall’altra parte hanno il vantaggio di essere tali: hanno la capacità di guardare avanti con una maggiore flessibilità nel reinventare le loro vite. Lo speriamo vivamente.

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