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Django Unchained

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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La recensione su Django Unchained

di hupp2000
8 stelle

Ho avuto la netta sensazione che nel realizzare questo suo progetto Quentin Tarantino si sia molto divertito e, a quanto pare, è riuscito a divertire altrettanto i suoi numerosi ammiratori. Le quasi tre ore di proiezione scorrono rapide, trovate geniali e colpi di scena non mancano, ma siamo piuttosto lontani dal livello eccezionale di “Bastardi senza gloria” (2009), che resta per me il suo capolavoro. Sul piano della spettacolarità, il film è ineccepibile, ma scarsamente innovativo rispetto alle precedenti rivoluzionarie pellicole dello stesso autore, che qui si limita ad evocare nel titolo una celebre figura del western all’italiana (offrendo a Franco Nero, capostipite del personaggio, un cinico cameo), per poi riferirsi più esplicitamente alla cinematografia di Sergio Leone. Tarantino ha studiato a fondo la lezione del maestro e propone una rilettura del suo stile, ampliandolo e sfruttando mezzi tecnici impensabili poco meno di mezzo secolo fa. Oltre non si spinge. Come nell’opera del regista romano, gli attori sono pregati di recitare sopra le righe, i dialoghi sono lapidari, la rappresentazione della violenza deve essere talmente eccessiva da suscitare più sorrisi che disgusto (il sangue non zampilla: erutta come da un vulcano!). Pur non avendo letto né sentito alcunché al riguardo, sono convinto che un’altra fonte di ispirazione sia attribuibile a “Mandingo” (1975) di Richard Fleischer, film morboso ed efferato, ma con il pregio di affrontare il tema del commercio di schiavi negri da combattimento negli Stati Uniti della prima metà dell’Ottocento. Potrei continuare con un elenco di citazioni da altri film e registi che risulterebbe in fin dei conti noioso. “Django Unchained” è un film epico nella forma, incapace di esserlo nella sostanza. Benché inserite in un preciso contesto storico evocato ma mai approfondito, le vicende raccontate girano intorno ai singoli personaggi senza particolare introspezione. Il protagonista ha certamente il classico “physique du rôle”, ma è il suo personaggio risale addirittura a “Ben Hur” (1959); Leonardo Di Caprio svolge egregiamente il suo ruolo, ma non ha la faccia giusta per apparire a tal punto cattivo; lo stesso Quentin Tarantino si offre una piccola parte, togliendosi lo sfizio di farsi esplodere come un kamikaze. L’unica figura delineata in profondità e che resterà sicuramente impressa nella mia memoria è quella del dr. King Schultz, un Christoph Waltz di nuovo impeccabile, dopo la sua gigantesca interpretazione nel citato “Bastardi senza gloria”. Qui, l’impronta del personaggio incarnato da Clint Eastwood ne “Il buono, il brutto, il cattivo” (1967) è palpabile: cacciatore di taglie, mira infallibile, freddezza costante. A differenza di Clint il “buono”, Christoph è cattivo ma, soprattutto, non parla ogni morte di papa, anzi ricorre ad un frasario elaborato e arcaico. A parer mio, è uno degli aspetti più divertenti dell’intero film. Audace colonna sonora. C’è di tutto, da Ennio Morricone ai suoi emuli degli “spaghetti western”, dalla musica classica a Richie Havens con la sua “Freedom” tratta da “Woodstock” (1970) e tanto altro ancora. In questo campo, Quentin Tarantino ci sa fare, come Spike Lee e Martin Scorsese.  

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