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Come un tuono

Regia di Derek Cianfrance vedi scheda film

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La recensione su Come un tuono

di M Valdemar
8 stelle

Il senso di Derek Cianfrance per la tragedia è un tumulto strutturato per immagini, suoni e rispondenze. Lo si percepisce sin da subito,  dai primi inseguimenti “aronofskyiani” - soggetto il bravo ragazzo Ryan Gosling prima, e l’altro bravo ragazzo Bradley Cooper dopo -, si sospende sublimandosi nel vuoto voluto di quei “quindici anni dopo” (intercapedine cupa che isola l’anima dalla coscienza), per poi dilatarsi a dismisura e deflagrare nel respiro epico provocato dalle fratture e dai rimossi di natura personale e familiare.
Le azioni di Luke (Gosling), le sue corse folli, sono marchiate dall’ineluttabile; e vi sprofondano, secondo un disegno feroce tatuato dentro di sé, inondato di disperazione - solo fugacemente interrotta da balordi sogni di una possibilità “altra” - ed alfine stagnante nel sangue. Pozza di sangue con occhi spalancati su una catartica fine: sembra un quadro, una composizione pittorica grottesca del candido ricongiungersi alla sporca terra, del (di)partire con la speranza - l’ultima - di non lasciare residui, brandelli infetti e contagiosi del proprio corpo e della propria angoscia (lo straziante appello, quasi una preghiera in forma di confessione: «non devi raccontargli di me»), come per portarsi via tutto il dolore, l’infinita infelicità.
In quello stesso specchio di sangue gli occhi di Avery (Cooper) sembrano riflettersi, immergendoci una crisi d’identità provocata dal dramma sfiorato e dal gravame inflitto. Gli eventi susseguenti, le scoperte fatte, le crepe sempre più profonde che lacerano la superficie abbagliante di un mondo perfetto, non fanno che acuire l’inquietudine, lo smarrimento. E così, gli occhi di Avery toccano e conoscono il torbido, rischiando seriamente di restarci ammollo o addirittura freddato; ma ne riaffiora, solcando le onde del torbido verso una esistenza (dalla maschera) perfetta.
Di nuovo, lo spazio temporale assente, che incombe, limaccioso e silente. Un vuoto colmo di evoluzioni: immaginate, indefinibili, necessarie; nonché genesi di altre sporche faccende, di altre traiettorie fragili e complesse, spezzate e confuse, vaganti e aperte.
Vite che continuano la loro influenza, la loro opera di dissezione di quello che fu; sia che abbiano terminato la loro esistenza terrena (Luke) sia che l’abbiano affogata in una progressiva ingorda fanghiglia di materialità e melmosa sete di arrivare (Avery).
L'incontro casuale - determinato dal Caso - dei figli di quelle vite, circoscrive una storia all’altra: man mano che i loro punti si toccano si formano delle pieghe dalla struttura instabile all’interno della quale si celano/creano altre curve di pericolosa entità (emotiva ed operativa). Finché, all’ultimo angolo esplorato, all’ennesimo stravolgimento, alla definitiva raccolta di ogni goccia di sangue ripescato da un passato presente più che mai, la storia compie la sua ellissi divenendo epopea tragica che culmina in fuga catartica, aperta verso nuovi orizzonti da abbracciare finalmente propri (la corsa in moto, a pieni polmoni, libera, sfollata di demoni e fantasmi, del figlio di Luke).
Epopea che è anche sonora: le linee musicali disegnate da quel genio schizzato di Mike Patton appaiono e scompaiono, espandono le dinamiche emozionali e filtrano l’atmosfera satura, descrivono sotterranei ricchi di epica (che è, di volta in volta, lugubre, spaziosa, anarchica). Un accompagnamento bizzarro e deforme, massicciamente presente anche quando il silenzio sembra aver calato le sue spira mortali (un po’ - anzi: esattamente - come il Luke dipartito).
In quella che è un’armonia imperfetta costituita da dissonanze, dissolvenze e distorsioni risulta fondamentale la resa estetica data da fotografia e messa in scena crude, violente, ispirate, in grado di alternare stati di realismo spinto ed espressionismo ebbro.
Una complementarietà di intenti che è propria, anche, e soprattutto, del duo di attori protagonisti, attorno ai quali si muovono figure tutte essenziali (tra gli altri il viscido “iniziatore” Ben Mendelsohn, lo sbirro - che non può che essere - corrotto Ray Liotta e le “sacrificate” Eva Mendes e Rose Byrne; bravissimi anche Dane DeHaan e Emory Coen, i figli di Luke e Avery). Ryan Gosling “vive” una parte sentita, fisica e disperata, capace di entrare all’istante negli occhi e nei cuori degli spettatori. Forse fin troppo “giusto” (“causa” la bravura e una predisposizione naturale), sta di fatto che riempie lo schermo come pochi, in maniera potente, ficcante.
Dal canto suo Bradley Cooper prosegue nella ricerca di ruoli difficili in film che lo sgancino da un immaginario popolato di notti brave e prestazioni alcolico-comiche, e, dopo l’eccellente prova ne Il lato positivo ribadisce la sua (inaspettata) versatilità. Ha un’intensità non immediatamente riconoscibile, eppure coi minuti che passano ci si rende conto che è del tutto immerso nel racconto, avvinghiato strettamente al flusso di effetti - visivi, sonori, emozionali - che Cianfrance architetta meravigliosamente.
E che risultato il suo progetto: Come un tuono è un’opera che vibra e penetra in profondità, fatta di carne e viscere, colorata di nero e rosso, esposta alle intemperie chiaroscurali dell’animo.
Da vedere.
 

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