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Noi siamo infinito

Regia di Stephen Chbosky vedi scheda film

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La recensione su Noi siamo infinito

di astridb
2 stelle

Il film è tratto dal successo editoriale The Perks Of Being A Wallflower (ed. it.: Ragazzo da parete) scritto dallo stesso Chbosky, il quale in un delirio di onnipotenza ne ha firmato regia, sceneggiatura e soggetto (oltre a esserne il produttore esecutivo). Non ho letto il libro, forse lo farò per dovere di cronaca, forse no per risparmio energetico. Detto ciò, è un film sugli adolescenti, per gli adolescenti, e data l’ingenua superficialità di temi e mezzi, fatto da un quarantenne probabilmente convinto di essere ancora  un adolescente.
Rigonfio autocompiacimento e stucchevoli citazioni musicali e letterarie pretendono di innalzare questo filmetto (o filmino, fa lo stesso) a simbolo pseudoculturale di una generazione: ma i dialoghi sembrano presi dalle scritte sugli zaini dei liceali, e questa fastidiosa sensazione di ostentata ribellione da poeta maledetto è amplificata dalla rititolazione italiana e dalla ridondante voce fuori campo del protagonista, seguito con palpitante empatia mentre si racconta in un epistolario indirizzato all’amico del cuore. Chbosky saccheggia a piene mani film di ben altro spessore, come Stand by me o L’attimo fuggente, per far presa su adolescenti che purtroppo per loro, ma fortunatamente per lui, non hanno avuto la possibilità di vedere quelle opere realmente generazionali mentre adolescenti lo erano davvero.

Depresso ma non certo profondo, tragico ma mai sinceramente drammatico, il film si snoda attraverso lo sguardo da cucciolo bastonato di Logan Lerman, ispirato forse a Jimmy Dean ma più vicino al Jake Gyllenhaal di Donnie Darko: per inciso, se nel corso della sua carriera Gyllenhaal ha abbondantemente espiato le sue colpe giovanili, è lecito riporre rosee speranze anche per la carriera futura di Lerman, casomai interessasse a qualcuno.

Insomma questo Charlie è un disadattato, uno di quelli accanto a cui classicamente nei film americani nessuno si vuol sedere in mensa, con problemi così grossi da far impallidire Oliver Twist (ed ecco citato Dickens addirittura sul quaderno di scuola, se qualcuno non avesse colto subito il riferimento).

All’espressione granitica del protagonista fanno da contraltare, in ordine sparso: il ghigno saccente e gigionesco dell’amico un po’ matto, più originale e sensibile degli altri in quanto gay; il taglio di capelli punk dell’amica cicciottella e mediamente sfigata, snobbata persino da Charlie, ma talmente intelligente da avere il coraggio inusitato di criticare Thoreau (altro furto da L’attimo fuggente), e da essere ammessa ad Harvard; le leziose faccette di Emma Watson (So stylish!), quella-strana-ma-carina-che-si-portano-a-letto-tutti-i-maschi-da-12-a-80-anni, immortalata, da it-girl quale è, in un pretenzioso slow motion che dovrebbe aggiungere pathos (come accade, guarda un po’!, ne L’attimo fuggente), ma rimane melenso birignao.

Incisivi come bamboline di carta i personaggi secondari: il fratello maggiore, campione sportivo orgoglio di papà; la sorella che in fondo si vergogna di lui; il professore che vede le potenzialità di questo tormentato ed emarginato studente (e futuro scrittore, come in Stand by me!), e gli insegna le buone letture: da Il buio oltre la siepe (romanzucolo studiato nei college d’America quando al liceo in Italia è previsto Dante) a Il giovane Holden passando dall’Amleto. Tra parentesi, Holden Caufield rimane amico indimenticato pure della mia adolescenza, ma … perché citare proprio i libri da bigino?? Mancava solo Siddharta, ma forse Chbosky ci ha rinunciato perché ci aveva già pensato Muccino ne L’ultimo bacio!

Proprio Shakespeare ci ha insegnato che non è importante cosa racconti, ma come lo fai: e qui non discutiamo la mancanza di originalità della storia e la delineazione monodimensionale di personaggi già visti. In Stand by me compaiono le stesse tipologie di soggetti, ma si tratta di archetipi, mentre nel film di Chbosky si rimane imprigionati nello stereotipo. C’è più approfondimento psicologico in una scena de I Simpson che in tutti i 102 infiniti minuti di Noi siamo infinito, ma molta meno supponenza.

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