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E la chiamano estate

Regia di Paolo Franchi vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su E la chiamano estate

di ed wood
7 stelle

Apprezzabile e discutibile tentativo di distanziarsi da certi stereotipi e certe soluzioni corrive del cinema (wannabe) d’autore italiano degli ultimi anni, “E la chiamano estate” è tanto entusiasmante quanto detestabile. Da una parte incanta e spiazza per l’estetica, così lontana dalla sciatteria di tante produzioni nostrane (eccezion fatta per la dizione della Ferrari, troppo in linea con gli italici standard “mormorati”); dall’altra potrebbe irritare proprio per questa ostinata ricerca stilistica. La verità, come spesso accade, sta forse nel mezzo: il film di Franchi non è certo privo di difetti e scompensi, ma certamente non annaspa nel virtuosismo gratuito, nella ricerca dell’immagine arty fine a se stessa. Inoltre, le sequenze erotiche sono girate senza falsi pudori né inutili esibizionismi: uno scabro e complesso reportage di una sessualità patologica, dove alla dolce ed intensa sinuosità del nudo della Ferrari si oppongono gli imbruttiti corpi pasoliniani degli amanti occasionali e delle prostitute. La fotografia, che passa agevolmente da un’irreale ed accecante luminosità (la candida dimora borghese in cui alberga la moglie, innamorata e frustrata, sfuggente e malinconica) ai toni lividi dei locali notturni (teatro delle avventure del marito, anch’egli innamorato, impotente con la coniuge e sex-machine con battone cocainomani e coppie scambiste), contribuisce a settare il (doppio) tono su cui si articola il discorso metafisico del film: dalla moglie “angelicata”, de-erotizzata, troppo amata per essere desiderata, si passa all’inferno bluastro delle più deprimenti perversioni dell’evo moderno (e tecnologico: difatti, fotografie e video degli invadenti smart-phone costellano l’universo degradato in cui è ambientata la vicenda, ma Franchi evita intelligentemente di dare ad essi troppa importanza, vista la complessità tematica e soprattutto psicologica dell’opera). Il film si articola secondo una struttura ciclica, ripetendo periodicamente la frase (e alcune immagini) d’apertura, per poi chiudere il discorso nel finale (che resta comunque ellittico, simbolico e sospeso). A scandire la discesa nell’abisso emotivo, compaiono voci off di vari personaggi abbinati a stranianti diapositive e video-selfie; un altro motivo ricorrente è la metafora (un po’ forzata) dell’anestesia (il protagonista è medico) su cui forse Franchi ha il difetto di insistere un po’ troppo. Così come anche la serie di ex-fidanzati della moglie, che il protagonista tormenta per cercare di trovare una soluzione al suo grave problema sessuale, appare un po’ troppo meccanica. Questa è forse la principale debolezza del film: non tanto il didascalismo (perché in verità le immagini scorrono fluidamente, senza spiegoni o sottolineature), quanto una certa programmaticità strutturale. Quello che invece sventa il rischio, insito in queste operazioni, di cadere in una freddezza sentimentale mortificante è la capacità di Franchi di dosare la componente tragica, soffocandola per gran parte del film per poi farla esplodere nella toccante sequenza del pianto/abbraccio con un amico di lungo corso. Un po’ risaputo l’utilizzo antifrastico di musica leggera d’altri tempi, che ricorda forse l’Ozon di “CinquePerDue”, mentre la scelta degli angoli di inquadratura è davvero ispirata e funzionale alla rappresentazione di un disagio emotivo (primissimi piani in decadrage, plongée etc…). Se una algida Ferrari non infiamma lo schermo, nemmeno nelle sequenze del tradimento al motel, il suo corpo compone forme tanto eleganti quanto inerti, in ogni caso espressive; mentre il francese Jean-Marc Barr coglie nel segno col suo sguardo minaccioso, fragile, affranto. 

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