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E la chiamano estate

Regia di Paolo Franchi vedi scheda film

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La recensione su E la chiamano estate

di OGM
6 stelle

Monotonia inespressiva. Ripetizione di discorsi lasciati a metà, e ripresi senza mai rilanciare. Paolo Franchi sviluppa un’idea drammatica insistendo sulla reticenza che ama tornare sui propri passi, per scandire ancora una volta, con un accento appena un po’ diverso, le stesse laconiche frasi. Dino ama Anna. Dino con Anna non vuole fare l’amore. Dino, senza Anna, è un maniacale consumatore di sesso a pagamento, ed un regolare frequentatore degli ambienti in cui si organizzano orge e scambi di coppie. Forse dietro a questa infelicità assurta a routine c’è solo un vuoto di ragione, impossibile da riempire con le parole. Magari è proprio a questa sostanziale inspiegabilità che alludono le inutili retrospettive sul passato di Dino: voci fuori campo che commentano le foto della sua giovinezza, testimonianze di conoscenti che sembrano voler solo ribadire quanto quell’uomo fosse enigmatico, distante, allegro solo in apparenza, probabile portatore di qualche insondabile mistero. Forse è davvero una persona senza nulla alle spalle, e nulla davanti. Ce ne dovremmo convincere anche noi, a fronte di tanto ostinato attaccamento ad un nonsenso che si nutre della propria disumana invariabilità. Il segreto accordo tra Anna e Dino prescrive un’eterna fedeltà all’assurdo. Ad un matrimonio privo di rapporti intimi. All’adesione totale ad un sentimento che deve essere esclusivo per le anime, coinvolgendo i corpi in una misura non meglio definita, ma senza mai varcare quella precisa soglia carnale. Si può indugiare a lungo su un concetto tanto semplice quanto sfuggente. Si può rileggere all’infinito il testo di una lettera d’addio mai arrivata al destinatario. Si può decidere di fermare l’attimo nella sua indeterminatezza, percorrendo innumerevoli volte quel punto interrogativo che vuole restare vivo e pulsante come un’insegna luminosa nel buio. Il rischio, però, è quello di bloccare l’azione cinematografica in un circuito chiuso,  che esaurisce rapidamente la propria carica di tensione, rivelando subito quel poco che c’è da dire. La lentezza diventa allora solo il ritmo di un movimento stanco, che ha perso il fiato e che chiede solo di poter procedere sempre uguale, per inerzia, illudendosi che anche quello sia un modo per andare avanti. Dino e Anna  continuano a rispettare il loro patto, proseguendo in un’intesa che è l’unico, inconsistente punto di arresto nel silenzioso turbine dei loro desideri inespressi, repressi, non concessi. Il quadro è immobile, eppure si potrebbe cercare di cambiare prospettiva: forse modificando l’inclinazione dello sguardo si potrebbero riconoscere le imperfezioni che ne intaccano l’uniformità, fino a leggere, dentro quelle crepe, il sedimento di un dubbio gravido di conseguenze. Invece per Dino ed Anna esistono solo certezze imposte da una ritualità che non cede mai alla pressione del tedio. Anna persevera nella forzata astinenza, Dino nella sua sregolatezza clandestina; Anna non infrange mai la sua finzione di pace ed appagamento, e Dino, per contro, non smette mai di provare a spingerla fra le braccia di un amante. E la chiamano estate poteva regalarci qualcosa di più di questa perversa amarezza trascinata con inverosimile costanza. E invece la sua suggestione – forte di indovinate citazioni melodiche degli anni sessanta - non va oltre la soffusa nostalgia per una gioventù in cui è mancato il coraggio di commettere i dovuti errori.

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