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Ombre rosse

Regia di John Ford vedi scheda film

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La recensione su Ombre rosse

di scapigliato
8 stelle

"La Diligenza", titolo meno affascinante del nostro "Ombre Rosse", come del resto "Sfida Infernale" invece che "My Dearling Clementine", è il ritorno di John Ford al western. Dal 1917 al 1926 sfornò qualcosa come 37 silent-western di varia lunghezza (le famose horse-opera), per poi ritornare al genere, codificandolo nella sua natura classica, con "Ombre Rosse" e "Drums Along the Mohawk". Un ritorno che non è un vero e proprio ritorno perchè ci vorrano poi altri 7 anni prima di girare "Sfida Infernale". Da qui e per tutti gli anni '50, il primo grande westerner del cinema girò ben 12 western, e tutti emblematici e mitici per il genere, fino al '64 de "Il Grande Sentiero".
Quando si parla di "Ombre Rosse" si parla di film fondatore. Prima di questa prova tecnicamente e artisticamente impeccabile, esistevano solo dei film muti, tra cui alcuni di Ford passati ugualmente alla storia del cinema, come "The Iron Horse", "Three Bad Men", e "Straight Shooting". Con il sonoro, e quindi con intenzioni cinematografiche diverse rispetto le origini, Ford matura i luoghi e i personaggi, i modi e le tecniche, per parlare di western. Uno dei luoghi più battuti era chiaramente la diligenza alla mercè di banditi e indiani, e Ford la prende subito come luogo cinematografico a parte. Infatti si può dire che il film diventi un vero western solo con l'attacco degli indiani e il seguente duello a Lordsburg, per il resto è un road-movie: tipi eterogeni che si trovano in una situazione eccezionale manifestando i loro tratti più personali durante un viaggio che è metafora del percorso umano individuale. Certo, la cornice western è affascinante, e gli ambienti non fanno pensare ad altro che al selvaggio West, ma la vicenda umana è il punto centrale della buona parte del film. La pellicola infatti propone tipi umani vari che sanno tirar fuori il meglio o il peggio di sè nonostante l'abito convenzionale che la società gli ha appiccicato. Abbiamo il medico alcolizzato e la prostituta che non vengono affatto ben visti dal resto della compagnia, così come da quelle vecchie criminali della Lega per la Moralità, un gruppo di fanatiche che è alle origini del Male Americano. Abbiamo un baro del quale non bisogna fidarsi, e un pistolero evaso che viene messo subito sotto arresto. Insieme alla feccia della società troviamo eleganti banchieri, tra i più rispettabili insieme a militari e politici dell'immaginario fontativo americano, che in realtà sono truffatori immorali; donne dell'alta borghesia che non vogliono mischiarsi alla plebaglia; militari ligi ai loro ordini anche quando questi sono discutibili, e via così. La morte la troverà solo il baro Hatfield, che da buon personaggio romantico doveva uscire di scena tragicamente.
Quando molti di noi, soprattutto il sottoscritto, tagliano i legami con il western classico per i due motivi più evidenti e fondamentali, quali gli indiani come cattivi, e gli intenti esemplari per un ordine nazionale come morale, non tengono conto del valore estetico e stilistico dell'impresa fordiana.
Primo, la "amenaza india" è solo circoscritta ai 6 minuti e 34 secondi che sconvolsero il cinema (quelli dell'assalto alla diligenza, un capolavoro di movimenti, luci, montaggio e ambiente), e gli indiani pur assumendo un ruolo ingiustamente negativo, rappresentano solo un pericolo esterno che minaccia la coesione interna. E questo è un tema caro al cinema USA, tanto caro da essere quasi il suo fondamento silenzioso. Il concetto di "mostro" nel cinema è da intendersi come rappresentazione di una minaccia che attenta alle sicurezze e all'ordine costituito. In tempi come la guerra fredda, l'arrivo dell'AIDS, della follia generale, del terrorismo, ecc, sono nate alcune tra le icone più immortali dell'immaginario come gli alieni, il serial-killer, Freddy Kruger, mostri genetici, animali impazziti. Tutti decisi a minacciarci. Se il racconto, e quello cinematorafico soprattutto, si fondano sulla regola narrativa del conflitto, il tentativo minaccioso di un mostro che ci vuole colpire ne è la sintesi migliore. Quindi anche in "Ombre Rosse" come in altri film in cui "arrivano i nostri", gli indiani purtoppo assumono un ruolo ingiustamente negativo. Una radicale opposizione a questo motivo è ingiusta se valutiamo l'opera fordiana nell'ottica di un regista che voleva solo rappresentare conflitti umani interiori usando la frontiera western come scenario esteriore, che è poi anche un altro conflitto. Infatti il dialogo tra paesaggio e personaggi, nel western, è la cifra mitica del genere.
Secondo, va colta la polemica che Ford porta avanti attraverso i luoghi comuni del pregiudizio. Alcolizzati, battone e bari sono etichettati come esseri immondi da badire dalla civiltà, un po' come il Capitan America e il Billy di "Easy Rider" (tra l'altro il road-movie è l'evoluzione moderna del western). Mentre banchieri, militari, e commercianti tutti, sono l'emblema della sanità morale e civile che porta avanti l'America. In realtà proprio questi ultimi sono i più marci e i meno cristiani del gruppo. La Lega per la Moralità, che caccia da Tonto sia la prostituta Dallas che il medico alcolizzato, è quanto di più rivoltante ci sia in tutto il film. Nemmeno gli indiani e i fratelli Plummer sono tanto disgustosi come quelle vecchie bigotte che han fondato la loro vita sul mito della "fortezza pura da difendere". I sepolcri bianchi di cui si parla nel vangelo, trovano nelle pieghe e nelle rughe dei loro orribili volti l'attualizzazione più confacente ad un'epoca, gli anni '30, in cui razzismo e pregiudizi sociali erano ancora molto fordi e sarebbero aumentati con il passare del tempo. Anche l'opposizione civiltà/selvaggio entra in questa dialettica. Lo scontro tra la diligenza e l'ambiente ostile, il cui climax è l'attacco indiano, è lo scontro tra la civiltà, con le sue finte sicurezze e convenzioni, e la natura selvaggia dell'uomo, il suo istinto. Purtroppo lo scontro piacere/dovere è vanificato dal finale che aggiusta e corregge il tiro della ribellione di Ringo Kid elevandolo, ahinoi, a mito esemplare. Fortunatamente arrivarono più avanti altri film che misero in discussione questi discutibili principi patinati, pur continuando a riferirsi in atteggiamento reverenziale al mitico John Ford. Tant'è che fu proprio lo stesso autore ad anticipare la tendenza revisionista e crepuscolare del genere western con due grandi titoli come "Sentieri Selvaggi" e "L'Uomo che Uccise Liberty Valance".
Prima di arrivare al western selvaggio di Leone, Corbucci, Peckinpah e Eastwood, abbiamo la fortuna di goderci capolavori in bianco e nero e non, che vanno oltre ai discutibili propositi moralizzatori, ma che in realtà tendono ad una mitizzazione dell'uomo come individuo in una collettività. Asciugando l'opera fordiana, e in particolare questo suo "primo" western fondatore, dai cattivi indiani (un pretesto figlio dell'epoca) e dagli intenti moralizzatori (annullati poi nella critica stessa alla Lega della Moralità), ci rimane il Mito, il vero western, i veri uomini che vanno per la loro strada, e questi sono comuni a tutti: da John Ford a Clint Eastwood, passando per Leone, Corbucci, Hellman, Peckinpah, Hawks, Mann, Valerii, e tutti i nostri inimitabili, e per certi aspetti superiori, spaghetti-western.

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