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Gravity

Regia di Alfonso Cuarón vedi scheda film

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La recensione su Gravity

di Spaggy
8 stelle

Silenzio, oscurità, vuoto, gravità zero, solitudine, rinascita: sei tappe differenti segnano le 156 inquadrature di Gravity, film di fantascienza - apertura della 70.ma Mostra del Cinema di Venezia - che, coraggiosamente e in barba ad ogni strategia di marketing, è retto da Sandra Bullock per oltre due terzi della sua durata. Senza alcun pressbook (a parte, un lunghissimo elenco di credits) ricco di note di produzione che svelino la poco dettagliata trama della vigilia, Gravity si apre con una lunga sequenza adrenalinica di 17 minuti nello spazio in grado di circoscrivere i personaggi e l’ambientazione, lasciando studiare i personaggi in scena e permettendo allo spettatore di immergersi in un contesto in cui nessun movimento è cosa nota e nessuna sensazione è stata mai provata in prima persona.



In orbita intorno alla Terra, senza alcun rumore che non sia naturale o dettato dalle circostanze (in particolare, da una collisione che libera nel cosmo i detriti di un satellite che, come particelle fisiche impazzite simbolo delle avversità della vita, innescano una reazione a catena simil-apocalittica), Ryan Stone è alla sua prima missione e affianca il veterano Kowalski (il cui nome si deve a uno dei personaggi del serial Voyage to the Bottom of the Sea), uno che a star con i piedi per aria è abituato e si può permettere il lusso di non prendere nulla sul serio, anche se stesso. È chiaro come i due, agli antipodi, siano l’una complementare all’altro: la sceneggiatura - rifiutata da più di una major – di Alfonso Cuaron e del figlio Jonas non lascia adito a dubbi, tanto che prova ne è la sequenza onirica che prima del finale vede Kowalski svegliare dal sonno (suicida e a base di anidride carbonica) la mai sicura Ryan, affranta da una vita che l’ha costretta alle verità del razionale e al silenzio della guida automobilistica che, quasi per contrappasso, la lasciano senza direzione guida e senza risposte sulla vita stessa e sul perché di certi elementi.



17 minuti, si diceva, per entrare nell’odissea nello spazio. Non quella kubrickiana che indicherebbe l’ambientazione, bensì quella in “open space”: poteva infatti chiamarsi così Gravity, evocando Open Water, opera a cui per contenuti e sviluppo è molto vicino. Le immagini spaziali, da spezzare il fiato con il loro 3D una volta tanto funzionale alla storia, accompagnano i 75 minuti di calvario, crocefissione e rinascita (non a caso, in una sequenza la Bullock assume una posizione fetale dentro alla “placenta” del suo grembo di salvezza) della Stone: prove, tentativi, fallimenti e una fuoriuscita dall’acqua della vita che, ironicamente per chi guarda, passa per Russia e Cina, da sempre “nemici” aerospaziali degli States.



Pur con qualche ingenuità e debolezza di scrittura, Gravity è un ottimo prodotto di genere in grado di assolvere degnamente il compito di aprire un festival, solleticando con il suo mix di autorialità e spettacolo i palati sia di critica che di grande pubblico.

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