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Il grande Gatsby 3D

Regia di Baz Luhrmann vedi scheda film

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La recensione su Il grande Gatsby 3D

di Lehava
4 stelle

 

"C'era sempre il dolore del ricordo; il rimpianto per la gioventù perduta, eppure... non avrebbe saputo dire perché la battaglia valeva la pena di essere combattuta... tese le braccia al cielo cristallino, splendente. "Conosco me stesso" esclamò "ma nient'altro!" Così F.S. Fitzgerald chiude il suo romanzo d'esordio "Di qua dal paradiso": Amory Blaine è passato attraverso l'inferno della sua anima, e ha perso per strada sogni e giovinezza. Ma è vivo, comunque, e afferra l'essenza di sé: la sua disillusione, la sua delusione sono stemperate dalla consapevolezza. Non è poco. Qualche anno dopo, l'esperienza avrà più che mai segnato un non più così giovane Fitzgerald. La sua ambizione, le sue ansie si condensano in un nuovo romanzo: "Il grande Gatsby" : apoteosi della decadenza e, questa volta sì, vertigine e abisso di un eroe come Amory Blaine non avrebbe mai potuto essere.

E' veramente "grande" Jay Gatsby? Lo è. Sì, dalla penna meticolosa e tagliente del proprio autore: creatura di Dio, ne interpreta il confine sottile fra predestinazione e libero arbitrio. Scrivendo, nell'ennesimo delirio di onnipotenza e sottomissione insieme, la propria etica. Ergendosi oltre: oltre ogni desiderio che ostinatamente si vuole esaudire; oltre il confine della realtà, verso l'idea. Condannandosi, inesorabilmente, alla solitudine dell'illusione. Come tanti eroi, forse tutti: lontani, irraggiungibili nell'empireo o nelle profondità.

 

Il testo di F.S. Fitzgerald si srotola in un racconto piuttosto banale: esso è essenzialmente un romanzo di caratteri: che si esprimono attraverso le azioni sicuramente (non esiste "introspezione psicologica" nella scrittura, non almeno quella che il lettore medio ma sufficientemente sensibile e cosciente si aspetterebbe) ma la cui essenza costruisce lo svolgimento. Perchè "Non c'è fuoco né gelo tale da sfidare ciò che un uomo può accumulare nel proprio cuore".

Tutto quello che è attorno, se pur importante, resta attorno, appunto. L'età del jazz, le ombre della depressione, l'alcol e lo stordimento, le convenzioni sociali e la ricchezza...

La trama: un uomo ricchissimo di oscure origini cerca di riconquistare l'amore di una donna riapparsa da un passato mitico. Riponendo in questa impresa ogni propria speranza correrà incontro al proprio tragico destino.

 

Come rendere cinematograficamente l' "'intuizione confortante dell'irrealtà della realtà, una promessa che la roccaforte del mondo era saldamente basata sull'ala di una fiaba"? I precedenti esiti (dagli anni Venti ai Quaranta ai Settanta) era stati, tutto sommato, deludenti: rispettosi ma vuoti. O forse, soltanto impietosamente fragili dinnanzi alla potenza descrittiva della parola scritta.

A Baz Luhrmann tutto si potrebbe contestare, fuorchè una spiccata capacità di personalizzazione. I presupposti quindi, per non essere schiacciato dalla responsabilità di trasposizione di un'opera così' importante per la cultura (non solo la letteratura) americana, c'erano tutti (e tra l'altro Luhrmann è australiano, particolare di non poco conto). Anche nelle scelte tecniche - gli anni ruggenti furono di grande sperimentazione, innovazione, sviluppo, perchè non condividere il 3D? - anche nei collaboratori, a partire dalla fidata Catherine Martin per scenografie e costumi (da sempre elementi fondanti dell'estetica del regista) fino a Leonardo di Caprio sulle cui capacità interpretative non ci sono dubbi e che tra l'altro aveva già lavorato con il regista.

I presupposti dunque: i primi trenta minuti circa sono, a tutti gli effetti, i presupposti. E, al di là di una performance scarsa di Tobey Maguire (non che l'abbia mai visto raggiungere anche solo una risicata sufficienza) reggono. Nell'entrata in scena di Daisy-Carey Mulligan in una splendente veranda di lievi tendaggi candidi al vento: “Guardai mia cugina, che cominciò a farmi domande con la sua voce bassa ed eccitante. Era il tipo di voce che le orecchie seguono come se ogni parola fosse un arrangiamento di note che non verrà mai più suonato. Il viso era triste e bello, pieno di cose luminose, occhi luminosi e una luminosa bocca appassionata, e c'era un'eccitazione nella sua voce che gli uomini che l'avevano amata facevano fatica a dimenticare: un irresistibile desiderio cantato, un “Ascoltami” bisbigliato, una promessa che le cose allegre ed eccitanti che aveva appena fatto le avrebbe rifatte di lì a poco.” Raggiungendo l'apice nella festa folle a casa di Gatsby, con giochi d'acqua rutilanti al suono di Gershwin (poteva mancare Gershwin?) abilmente mescolato ad una estetica sonora pop-dance.

Tutto già visto (già visto in Romeo+Juliet, già visto in Moulin Rouge) ma pur sempre bello a vedersi.

Poi però il film prosegue, e si è chiamati a penetrare nello spirito dei personaggi più che nella vicenda, pallidamente scontata e superficiale.

Ed è qui, che miseramente, i presupposti si sciolgono al sole.

Del grande Jay Gatsby non resta che la faccia gioconda di un Leonardo di Caprio forse fin troppo convinto delle proprio possibilità, che gigioneggia una vena idealista ed ingenua, del tutto limitativa “Sorrise con aria comprensiva – molto più che comprensiva. Era uno di quei rari sorrisi dotati di eterna rassicurazione, che s'incontrano quattro o cinque volte nella vita. Fronteggiava – o sembrava fronteggiare – l'intero mondo esteriore per un istante, e poi si concentrava su di te con un irresistibile giudizio a tuo favore. Ti capiva fin dove volevi essere capito, credeva in te fin dove ti sarebbe piaciuto credere in te, e ti assicurava di avere ricevuto da te esattamente l'impressione migliore che speravi di dare.” Difficile dire dove finiscano i demeriti del regista (tra l'altro sceneggiatore) ed inizino i demeriti dell'attore. Non c'è cuore, non c'è testa, non c'è nemmeno corpo (inadatto il protagonista, nelle espressioni e nelle posture, per altro peggiorato dal trucco). Meglio la figura di Daisy ma solo perchè il testo lascia più libera interpretazione: le donne di Fitzgerald non hanno spessore: sono flappers lussuose e spesso disinibite. Poco più. Qui però si opta per una recitazione melodrammatica e molle, stemperando la vacuità nel tentativo di dare un senso alla passione. Carey Mulligan ce la mette tutta ma è soprattutto nell'interazione dei personaggi che non riesce mai a raggiungere una corretta intesa. Inguardabile Joel Edgerton nei panni di Tom Buchanan. Nessun fremito fra lei e Gatsby: “Perfino in quel pomeriggio dovevano esserci stati momenti in cui Daisy non era riuscita a stare all'altezza del sogno, non per sua colpa, ma a causa della vitalità colossale dell'illusione di lui che andava al di là di Daisy, di qualunque cosa. Gatsby vi si era gettato con passione creatrice, continuando ad accrescerla, ornandola di ogni piuma vivace che il vento gli sospingesse a portata di mano”.

 

Regia insufficiente dunque, con abbondanza di primi piani “tutto-core” ed incapacità completa di rendere il quadro d'insieme (stando furbescamente a metà strada fra omogeneità al testo ed interpretazione; fra anni Venti ed anni Duemila; citando la musica dell'epoca ma rimescolandola con il contemporaneo. Non osando nulla dal punto di vista tecnico) sceneggiatura irregolare (noiosi ed inutili i siparietti psicanalitici, dialoghi che paiono scoppiazzati più che citazioni) montaggio e fotografia nella media di un grande blockbuster americano. Insomma “di qua dall'inferno” - metaforico si intende

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