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L'occhio caldo del cielo

Regia di Robert Aldrich vedi scheda film

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La recensione su L'occhio caldo del cielo

di spopola
8 stelle

Premessa

Sono passati esattamente dieci anni da quando mi sono iscritto al sito: era il 20 settembre del 2004 (e sembra solo ieri). Il tempo si consuma troppo in fretta e probabilmente non ce ne saranno altrettanti da trascorrere insieme (ma non si sa mai). E’ comunque un traguardo che impone una riflessione. Non sono stato molto prolifico come numero di recensioni (qualcuno potrà dire “per fortuna”) ma non si può dire altrettanto per il numero di parole che ho utilizzato (e ciò che pubblico qui di seguito ne è una conferma palese, ma mi sembrava giusto non smentirmi nemmeno in questa circostanza). Sono stati comunque dieci anni intensi e appassionanti pieni di felici incontri e di “amicizie” importanti che se dipendesse da me… vorrei che si prolungassero all’infinito: qui dentro insomma mi sento a casa mia… e la community è diventata un po’ la mia famiglia.

 

L’OCCHIO CALDO DEL CIELO

Una buona dose di intransigenza massimalista della critica chiamata a giudicare il rientro in patria di Aldrich dopo il momentaneo esilio europeo, avvenuto con questo The Last Sunset conosciuto anche come The Day of the Gun(diventato nella versione italiana L’occhio caldo del cielo, una volta tanto con una più inquietante, intensa pertinenza rispetto all’originale, dovuta alle suggestioni torbidamente enfatiche che lascia trasparire in sottofondo), credo sia senz’altro attribuibile alla inusuale forma scelta per la rappresentazione in immagini della storia che si dipana in tempi e modi insolitamente allentati, quasi ieratici, che privilegiano la classicità di uno sguardo capace di spingersi in più di un’occasione, nelle zone estreme della poesia (penso alla scena dei “fuochi di Sant’Elmo” per esempio, o a quella altrettanto empatica del “guaire sommesso e disperato del cane” sul cumulo di terra sotto il quale è stato seppellito il suo padrone).

Sembra infatti che qui Aldrich intenda priorizzare su ogni altra cosa, la lucidità “descrittiva” dei caratteri in divenire che gradualmente rivelano passati colmi di lacunose zone d’ombra, rinunciando (o rendendola meno esplicita) a quella ridondanza “insolente” che era stata fino a quel momento, il filtro identificativo del suo stile un po’ barocco pieno di ingegnosa creatività.

La mancata “riconoscibilità” causa a volte brutti scherzi e abbagliate disattenzioni: non riesco a considerarne altre di ragioni altrettanto valide per giustificare l’ostracismo verso quest’opera certamente non perfetta, ma che proprio dalle sue imperfezioni, dalle approssimazioni, dalle brusche sterzate, da quel sotterraneo “non detto” che emerge prepotente, trae il suo maggior fascino, una attrazione “speciale” che spinge il pensiero ad immaginare, ciascuno a suo modo, le origini del dramma, a costruirsi la propria “verità identificativa”.

Come per altro già il soggetto suggerisce, è dunque semplicemente un film più di scavo delle coscienze che di “avventurose sequenze” (l’unica davvero classificabile come tale, è quella della tempesta di sabbia con il rapimento delle donne e il successivo inseguimento per riportarle in libertà), nel quale viene giustamente adottato un passo di marcia più disteso che non poteva davvero essere né ellittico, né travolgente, come invece qualcuno avrebbe preteso che fosse. A volte però è l’apparenza che inganna, poiché se si osserva meglio l’opera, ci si accorge non solo che la macchina da presa non è mai statica né inerte, ma anche che il numero delle inquadrature fra campi e controcampi, primi piani alternati che diventano parossistici nella scena preparatoria del duello finale, le frequenti panoramiche, i maestosi carrelli e il serrato montaggio ancora e sempre di straordinaria efficacia compositiva che concede necessarie pause più riflessive per poi arroventarsi di nuovo, non sono alla resa dei conti procedure operative molto diverse, o in controtendenza, rispetto a ciò che è stato fatto prima o che verrà dopo. Che non ci sono insomma divergenze fondamentali nelle dinamiche un po’ contorte e indistricabili che caratterizzano più o meno tutti i protagonisti (qualcuno con un passato pieno di adombrate “colpe”, di cadute, o forse di semplici omissioni, se non proprio portatore di una “dubbia” verità priva di rassicuranti conferme; altri segnati da esperienze e traumi che non ci saranno mai del tutto rivelati e nei confronti dei quali possiamo al massimo formulare qualche ipotetica congettura) rispetto a quello che è il cinema mainstream del regista, compreso il parallelo politico “leggibile” in filigrana ma non tanto nascosto, né ermeticamente celato dietro allegoriche forme un po’ astruse.

Non c’è allora peggior cieco di chi si ostina a non voler vedere, (si pensi per esempioalla pesante stroncatura riservatagli da un critico importante e illuminato come Adelio Ferrero che sulle pagine di “Cinema Nuovo” n° 155, gennaio/febbraio, 1962 lo liquidò così: “di fronte a una storia convenzionale e truculenta che Aldrich narra con stanco mestiere in questo film, qualcuno ha parlato malinconicamente del declino di un regista famoso in passato per il suo anticonformismo e per una spericolata vocazione di innovatore di tutti i «generi» collaudati da Hollywood in tanti anni di tentativi e di alchimie mercantili. In verità, a parte la memorabile eccezione de ‘Il grande coltello’, il preteso anticonformismo di Aldrich è sempre stato di natura assai dubbia, e in quanto alla sua disposizione innovatrice, è consigliabile la più rigorosa cautela. Piuttosto c’è da notare che l’aspetto più discutibile, ma non privo di un certo interesse, della filmografia di Aldrich, e cioè la ricerca di un equilibrio fra partecipazione passionale e cinismo intellettuale, è venuto del tutto a mancare in un film come questo, in cui l’equilibrio si è definitivamente rotto a tutto vantaggio degli elementi patetici e drammatici, che sono purtroppo quelli del melodramma inteso nella sua accezione più limitativa e irritante” o al giudizio ancor più tranciante di Tullio Kezich, che trascina uniti nel baratro regista e sceneggiatore con una ferocia senza appello e che sembra davvero – oso osservare a posteriori – non averci capito proprio nulla, incapace come è stato, di scorgere qualcosa oltre il limite del proprio naso, nell’inamovibilità di un pensiero ormai codificato su una staticizzata posizione oppositiva, quando lo ha definito e liquidato come un’opera narrata con distratta pedanteria, senza partecipazione, imbastita su un soggetto che se fosse stato di uno scrittore italiano si sarebbe potuto dire che si è rifatto allo stile un po’ tronfio delle “Novelle della Pescara” di D’Annunzio, compreso il gusto compiaciuto dell’iperbole letteraria fine a se stessa e una certa assecondata retorica non solo lessicale figlia di un eccesso di dilettantismo culturale, non esente da manierismo e ricerca dell’effetto).

Purtroppo però in questo caso nemmeno il tempo ha davvero rimesso del tutto le cose al suo posto, poiché purtroppo sono in molti che ancora continuano a storcere il naso.

Sappiamo comunque per certo che le vicissitudini della lavorazione non sono state delle più lineari per una concomitante serie di circostanze e le molte intromissioni che hanno reso accidentato il percorso, ed è questa una considerazione dalla quale non è possibile prescindere per non essere analogamente fallaci ed imprecisi nel giudizio.

Il progetto era stato caldeggiato e fortemente voluto proprio da Kirk Douglas (qui anche in veste di produttore), evidentemente affascinato dalle straordinarie potenzialità istrionicamente esornative di una figura come quella di O’Malley che gli sembrava potessero calzargli a pennello, ma che ha però più volte preteso proprio per questo, di prendere in mano la situazione per imporre – per lo meno sul personaggio – la sua visione delle cose, rendendo un po’ conflittuale il rapporto col regista, al quale cercava spesso di usurpare il ruolo. Si deve poi considerare che l’elemento di punta e di interesse primario su cui si concentrava il pensiero e l’attesa, era proprio il nome di Dalton Trumbo che aveva da poco avuto il via libera dall’HUAC per riprendere il suo lavoro (grazie ancora a Douglas, si era già cimentato nella stesura della sceneggiatura di Spartacusdi Kubrick), e manifestava una giustificabilissima, impellente necessità di scrivere, scrivere il più possibile per recuperare il tempo perduto, riversando il suo interesse soprattutto su quei soggetti che la dichiarata ideologizzazione delle situazioni, rendeva più consoni ai suoi bisogni del momento. Sollecitato da più parti, avrà per questo motivo certamente buttato giù abbastanza affrettatamente il copione in oggetto come qualcuno sostiene (che rimane comunque a mio avviso un rimarchevole risultato che non sfigura assolutamente fra le cose maggiori da lui realizzate, proprio in quel suo essere “impreciso” e un po’ slabbrato), tutto preso come era dall’impegno quasi contemporaneo che lo richiedeva operativo verso un più allettante set (Exodusdi Preminger, per l’esattezza).

Aldrich da parte sua, veniva da un periodo particolarmente critico che lo costringeva ancora a muoversi “con i piedi di piombo”, come si sul dire, e, visti i suoi precedenti, ad essere più “diplomatico” di quanto la sua estroversione non consentisse: in perfetta sintonia di pensiero anche politico con quello dello sceneggiatore, riteneva forse di poter contare su una sua collaborazione più specifica e continuativa per realizzarsi al massimo della forma, ed è probabilmente proprio quello che invece gli è venuto a mancare, costringendolo a barcamenarsi più del necessario, fra i diversi input e le differenti sollecitazioni. Stretto così fra le invasioni di campo dell’attore/produttore e le latitanze dello sceneggiatore (il suo disappunto al riguardo è testimoniato da un’ampia intervista del 1969 concessa a Joel Grinberg per Sight and Sound nella quale si lamenta proprio dello scarso tempo dedicatogli da Trumbo), non si è trovato certamente nelle migliori condizioni per esprimersi liberamente e in piena autonomia di movimento, tanto che non ha mai nascosto di aver davvero poco amato il risultato raggiunto (ma non può essere l’autore, a mio avviso, a valutare con la dovuta serenità d’animo il proprio lavoro sulla base delle intenzionalità programmatiche di partenza: quel compito spetta di diritto a chi “recepisce” l’opera e ha la possibilità di rapportarsi con il risultato pratico che è approdato sullo schermo e con ciò che riesce a veicolare, perché nonostante le evidenti “approssimazioni”, molto è rimasto intatto non solo dell’idea fondante, ma anche proprio di quella personale modalità operativa di espressione, una volta tanto aperta addirittura a nove prospettive di lettura interpretativa che il tempo ha reso più evidenti e certe).

Ci troviamo indubbiamente di fronte a un’operazione ambiziosissima e non del tutto riuscita, controversa e piena di lacune, se vogliamo, persino fallimentare per alcuni aspetti (per quel che può valere il mio pensiero, solo sotto il profilo degli incassi che furono disastrosi, però), ma piena di tracce sotterranee che acquistano nuovo vigore e forma se rivisitate con la serenità più meditata e attenta dell’oggi, che ci consente di fare un resoconto, tutto sommato in positivo, anche del lavoro complessivo che Aldrich ha fatto, operando una volta tanto – e giustamente - in sottrazione: niente esposizione di uccisioni cruente, né dettagli grandguignoleschi, in questo caso, tutti lasciati all’immaginazione empatica del “fuori campo”, ma un’accorata, elegiaca atmosfera intrisa di un potente lirismo che rende ancor più tragicamente coinvolgente il risultato e la percezione.

Autore di questa (per me) bellissima storia basata sul racconto Sundown at Crazy Horsedi Howard Rigsby è – come si è già visto – Dalton Trumbo, da poco “riabilitato” dopo la proscrizione maccartista. Checché se ne dica, la formazione politica, il suo orientamento ideologico di sinistra, persino le sue “disavventure”, sono tutti elementi presenti e rilevabili anche in questo script, insieme ovviamente al suo inconfondibile talento che esalta una poeticità più esposta e ridondante del solito, ma ugualmente priva di retorica, che si impone con prepotenza proprio per la inusuale qualità della scrittura, la tenuta del racconto nonostante i dichiarati “buchi”, e soprattutto per i sottotesti di lettura che resistono magnificamente all’usura, malgrado i cinquant’anni e passa che il copione si porta sulle spalle, così pieno com’è di simmetrie, di sfumature, di sfaccettate psicologie, di problematiche sociologiche e morali fra innocenza e degradazione che implicano profondi dilemmi di coscienza.

Quali sono stati per esempio i veri traumi che hanno trasformato Belle, la giovane ragazza innocente dal vestito giallo, nella grintosa, disincantata donna di frontiera che è adesso? La ragazza che ricordi è morta, dirà a O’Malley che cerca inutilmente di resuscitare il passato e l’amore di un tempo, tu hai amato una ragazza di sedici anni in un altro paese. Anzi in un altro mondo, e credi che io sia ancora quella. (…) Tu non capisci. Io non voglio essere amata come se fossi una tremante innocente fanciulla. Voglio essere amata per quello che sono adesso. Io sono una donna con il cuore, la mente e gli istinti di una donna. Non sono più né giovane, né innocente. C’è molto di più in me da amare adesso oltre a quello, ma tu non lo vedi perché non vuoi vederlo.

Cosa nasconde il passato di John Breckenridge, suo marito? E’ veramente un eroico superstite rimasto ferito e menomato in una cruenta battaglia della guerra di secessione, o è soltanto un pavido codardo disertore che affoga nell’alcool la sua infingardaggine millantando eroiche imprese guerresche che non ha mai compiuto, come gli verrà rinfacciato nell’aggressione che gli costerà la vita?

E da dove deriva l’acceso antagonismo dell’indomito, adamantino Stribling, integerrimo sceriffo senza macchia e senza paura? Quel suo accanito inseguire l’omicida per consegnarlo alla giustizia “affinché non possa mai più fare del male ad una donna”, scaturisce davvero dall’odio misto ai sentimenti di vendetta per l’assassinio del cognato e la conseguente morte di sua sorella “suicida per amore” e sprezzantemente valutata invece da O’Malley al rango di una prostituta (tua sorella – ribatterà allo sceriffo che lo accusa – era come quelle bibite offerte gratis dalla ditta… e ti assicuro che nessuno è mai tornato a casa con la sete. Nessuno, capisci?), o c’è ancora qualcos’altro che precede, risalente a quel vecchio, “forse” occasionale incontro, a Fort Brent nel Colorado con O’Malley nelle vesti di un ubriacone al verde e alla deriva che improvvisava versetti poetici in cambio di piccole elemosine necessarie per rifornirsi di una nuova dose di whisky, al quale l’uomo ha “misericordiosamente” pagato una bevuta? Quali sono le origini effettive di quel “bovaro”, come lo apostrofa O’Malley con dichiarato disprezzo in più di un’occasione? Di lui sappiamo veramente poco, oltre ai sui lutti, che si estendono anche a quello della moglie e delle sue due figlie, trucidate durante un attacco indiano, a cui Stribling accenna quasi in sordina durante il colloquio con Belle nella chiesa diroccata, in risposta a un’amara riflessione della donna (Le donne sono chiamate sempre a piangere i loro morti. […] Mi è sempre sembrato che solo le donne continuino a vivere. Gli uomini uccidono e vengono uccisi e le donne li seppelliscono. Sono superstiti di professione) proprio sul ruolo di “sopravvivenza” certa, in quell’epoca particolarmente feroce, principalmente virata al femminile.

Ma soprattutto, chi era una volta O’Malley, l’uomo che dovunque vada porta con sé la tempesta (ed è ancora Belle a definirlo così), e cos’è che si trascina dietro di tanto terribile, oltre al grave fatto di sangue che gli viene contestato dallo sceriffo, che non può concretizzarsi soltanto in quell’episodio, tutto sommato marginale, di esuberanza giovanile, di aver strappato con geloso furore un mazzetto di primule appuntato su un abito giallo e di aver preso a pugni un giovanotto che ballava con la sua ragazza? Davvero troppo fragile il pretesto per avere da solo aperto così profonde e incolmabili crepe.

O’Malley è certamente il personaggio più interessante, quello che giganteggia fra tutti, colui che domina la scena. Incarna e rappresenta magnificamente uno dei tanti disadattati così frequenti nel cinema americano, ed ha soprattutto l’ambiguità necessaria per assumere la dimensione catartica di un ennesimo, straordinario outcast - tipica figura ricorrente e centrale di tutta l’opera cinematografica di Aldrich – per altro immerso in una atmosfera praticamente priva di positività, oltre che di certezze assolute, come quella che ci viene qui rappresentata.

Solitario per forza di cose, uomo perennemente in fuga, cavaliere nero già bruciato all’inizio della storia, violento, sentimentale, imprevedibile e sognatore al tempo stesso, capace di slanci appassionati o di momenti di dominante prevaricazione (la scena dell’asservimento del lupo ne è un esempio lampante) è davvero una figura non solo affascinante, ma che fa anche paura, e dalla quale è necessario difendersi per “preservarsi” (e sarà proprio questo che gli rinfaccerà ancora Belle, incapace di assecondare le impossibili illusioni riparatorie dell’uomo).

In effetti, la società che la donna rappresenta e che comprende anche Stribling (entrambi incarnano il conformismo di una condizione) non può che essere spaventata da un tipo così inquietamente “irregolare”, pieno di rabbia, tanto imponderabile da diventare una minaccia: la società per andare avanti, per riprodursi – e “quella” in particolare - ha sempre bisogno di certezze, e non delle destabilizzanti provocazioni che O’Malley porta con sé ostentandole quasi con orgoglioso disprezzo.

Nel suo commento all’opera fra gli extra del Dvd di riferimento, Vieri Razzini apre uno spiraglio e una prospettiva davvero interessante, soffermando il suo pensiero, a proposito proprio di questo personaggio così emblematico, su un misconosciuto romanzo dell’inizio dello scorso secolo di Ford Madox Ford, Il buon soldatoi, dove viene espressa una sintesi che calza a pennello con il discorso che stiamo facendo. Lo fa suggerendo un’ipotesi interpretativa che si orienta verso una visione più strettamente sociologica della sua figura: La società deve andare avanti, e la società può andare avanti solo se gli esseri normali, virtuosi e un po’ falsi, prosperano, e se quelli appassionati, caparbi, quelli troppo spontanei, sono condannati al suicidio e alla pazzia.

Normali e virtuosi appunto (ma anche - se non proprio completamente falsi anche un tantino ipocriti) lo sono senz’altro Belle e lo sceriffo Stribling, e saranno proprio loro allora che poi alla fine avranno la meglio. La differenza piuttosto sostanziale, sta semmai nel fatto che O’Malley non è un “innocente” come il protagonista di quel libro, ma un killer, un uomo che ha ucciso, anche se forse non voleva farlo (ma è solo un’altra dubbiosa incertezza che si insinua, visto che di solito affronta il nemico quando questo ha il sole negli occhi, come ha fatto appunto in quella circostanza per essere sicuro di avere la meglio, e in ogni caso non sono mai le intenzioni che contano, ma solo i risultati pratici delle azioni che si compiono). Non sono però molto diverse – ed ecco perché il rapporto rimane interessante - le conclusioni alle quali si approda nel finale.

Possiamo per questo allora definire O’Malley un uomo in guerra (con il mondo e con se stesso) che ha combattuto e combatte una battaglia contro un ordine che ritiene non accettabile, che non riconosce, né rispetta. Ed è talmente estremizzato il suo pensiero, da non riuscire nemmeno a sottostare all’ordine naturale del tempo, tanto che, prima attraverso Belle, poi attraverso la ragazza sedicenne che le è figlia, cercherà di riportare indietro le lancette dell’orologio, per inseguire proprio quella “giovinezza” che non c’è più e che sarebbe in ogni caso impossibile da recuperare.

Da qui, da tutto ciò che è stato esposto sopra, può partire dunque la lettura ideologicizzata del contesto che è ancora legittimamente pertinente (anche se ovviamente come si è visto, non è la sola possibile), considerando che il particolare ritratto che ne emerge, non può che rimandare a una più che evidente (e dichiarata) interpretazione “metaforizzata” della storia americana di quegli anni (i film di genere, sono l’ideale per suggerire coraggiosi “parallelismi” altrimenti improponibili, e per quello che riguarda proprio le malsane degenerazioni maccartiste, era certamente necessario arrivare ad una mediazione come questa, così come aveva fatto in altro contesto anche Arthur Miller con il suo dramma Il crogiuolo, per ritrarne e denunciarne le origini utilizzando un presunto e cruento fatto di stregoneria di stampo medievale).

L’occhio caldo del cielo è del 1961: le ferite erano ancora troppo fresche e sanguinanti per poter essere chiari e diretti nell’esposizione, ma analogamente potente era il bisogno di stigmatizzare i fatti per prenderne le giuste distanze con una adeguata denuncia “demistificativa”, e in qualche modo ci si poteva arrivare anche per vie traverse senza perdere troppo d’efficacia, come appunto è accaduto in questo caso. Certamente per farlo, Aldrich ha dovuto forzare un po’ le cose, tentando di adattare ai sui bisogni, un copione importante, ma troppo “indeterminato”, e non sempre del tutto pertinente, con Trumbo ormai lontano e indisponibile (o troppo poco attento e interessato) a collaborare per affinare le lame e rendere meno embrionale il contesto, che è e rimane, prioritariamente, quello di una sfida fra due opposte posizioni, resa ancora più estrema dall’amore per la stessa donna.

Per riuscire a trasformare un banale, consueto, scontro fra “bene” e “male” (il buono per antonomasia contrapposto al cattivo di turno) in una desolata allegoria di ciò che era davvero accaduto in quei terribili anni di riflusso ideologico, per esprimere il suo critico giudizio, Aldrich ancora una volta ricorre dunque al ribaltamento della convenzionalità tipicizzata del genere, e O’Malley, in apparenza il “malvagio” che rompe gli equilibri, diventa così il perseguitato (e conseguentemente l’eroe positivo), colui che la società “benpensante” e ipoteticamente propositiva (quella alla quale si accennava sopra) ha già condannato inappellabilmente: il suo “peccato originale”, più grave e insanabile ancora del delitto commesso, che non sappiamo quanto poi davvero possa essere considerato tale nella implacabile legge della frontiera, visto che ci mancano gli elementi valutativi necessari fra nesso e causa per emettere un giudizio sicuro e una sentenza, è proprio l’anticonformismo, il suo essere diverso e “contro”, il non sapersi adattare alla “omologazione” regolarizzata degli altri che difendono un riconosciuto e condiviso senso dell’ordine, il suo esprimere sentimenti e pensieri pericolosamente divergenti. Il senso è davvero tutto dentro questo ribaltamento: un ribelle fedele alla sua idea al quale non si può concedere alcuna chance, se non quella della fuga (che corrisponde alla rinuncia o all’abiura), una soluzione per lui inaccettabile ed impossibile, poiché se la fuga è già di per sé un compromesso, qui è addirittura “il compromesso” per eccellenza, proprio perché suggerito da coloro che temono il disordine e intendono esorcizzarlo, “annullandolo”, cercando inutilmente di salvare capra e cavoli con una spregiudicata disponibilità alla “negazione”. E che cosa rappresentino nelle vicende di quel paese e di quei tempi le figure e le loro azioni qui proposte, è talmente lampante che non è sicuramente necessario ritornarci sopra per fornire ulteriori spiegazioni

Ma questa (e di nuovo al c’entro della riflessione c’è l’interessante ambiguità di un processo narrativo) è solo una fessura che ci consente di scorgere una piccola parte, quella più esposta, di ciò che viene espresso. Spostiamoci allora un poco su un piano più filosoficheggiante o che privilegi l’introspezione psicoanalitica: sarà interessante notare che pur cambiando la posizione dello sguardo, non si modifica però il risultato (ed è proprio questo a confermare il valore dell’opera), perché nemmeno visto da questa prospettiva, O’Malley, il “cavaliere nero”, potrebbe aspirare davvero ad altre soluzioni più accomodanti come quella di trovare scampo nella fuga. Lui non è un uomo che scappa, non lo ha mai veramente compiuto l’atto vigliacco di fuggire, e nemmeno questa volta può di conseguenza sottrarsi al suo destino. La sua rimane una posizione fortemente etica, e di questo del resto, ce ne è già stata data ampia dimostrazione (ha persino salvato Stribling dalle sabbie mobili, per quell’intima coerenza che gli renderebbe in ogni caso impossibile liberarsi di un rivale e di un nemico in una maniera tanto abietta). Un uomo di tale tempra e coerenza, non può “sottrarsi” dunque, tanto più dopo quella “rivelazione” inaspettata (una nuova, terribile “verità” capace di rimettere tutto in discussione, o soltanto una studiata, patetica, necessaria menzogna distruttiva?) che ci trasporta davvero in un clima da tragedia greca. O’Malley a questo punto, deve ancor di più restare dentro al gioco e riscattare il suo peccato. Sceglierà per questo l’inevitabile via del “suicidio”, un atto che si compirà però con una modalità quasi diabolica se vogliamo, poiché per raggiungere il suo scopo, utilizzerà proprio la mano del rivale, così da ricondurre anche lui al rango di assassino, in un certo senso finalmente simile (speculare) a se stesso. “Costringendo” - sia pure impropriamente - Stribling a macchiarsi di quel crimine, gli trasmette inesorabilmente proprio “il peso della predestinazione al male”, caricando sulle sue spalle il fardello di una sconvolgente eredità, perché qui davvero il problema delle origini della colpa e del peccato, rimane insoluto (nel colloquio con Missy che gli chiede se davvero è un assassino, O’Malley risponderà amaramente, ma tutt’altro che per trovare una giustificazione, che se un uomo uccide è perché Dio glielo permette, tanto per non fare sconti a nessuno, visto che se lui volesse, potrebbe fermarlo e non lo fa…).

Rimane allora solo l’ineluttabilità inesorabile del fato dunque, che rimanda a quel filone definito “western problematico”, intriso di froidiane implicazioni sotterrane inconfessate e fosche, inaugurato di diritto da Notte senza finedi Walsh, un sottogenere molto frequentato in quegli anni, che si è spesso inoltrato “dentro i torbidi meandri delle pulsioni proibite”, attingendo importanti elementi ispirativi proprio dai “classici” della letteratura tragica, dentro al quale il film in oggetto si colloca a pieno titolo, e con ottime credenziali, ipotetico incesto compreso.

La sontuosa fotografia di Ernest Laszlo e la sapiente organizzazione dello spazio, fanno il resto: sono elementi aggiuntivi che restituiscono un insolito splendore cromatico e figurativo al risultato, a partire dall’ariosa scena introduttiva sulla quale scorrono i titoli di testa, maestosa ed avvolgente nei sui campi lunghi e le panoramiche mozzafiato.

Ma le scene importanti e degne di menzione che danno lustro all’opera, oltre a quelle già citate, sono molteplici: l’arrivo di O’Malley alla fattoria con quel suo fischiare insolente il tema della canzone Pretty Little Girl on the Yellow Dressed, (vero, reiterato leitmotiv della storia) e il conseguente, sottile gioco degli sguardi che anticipa quasi tutto ciò che si “dovrà” sapere dopo; la dolente sequenza dell’assassinio di John Breckenridge (la breve ma intensa caratterizzazione che fa Joseph Cotten del devoto, “insignificante”, un po’ pusillanime marito di Belle, è davvero di straordinaria pregnanza); la bufera di sabbia; il concitato finale, drammatico e liricamente malinconico allo stesso tempo… ma sopra le altre, per impaginazione e risultato anche di “trascinamento emotivo” del pensiero di chi osserva (e di chi è se non di Aldrich il merito?), quella della fulminante apparizione di Missy col vestito giallo della madre alla festa messicana conclusiva prima dell’attraversamento del fiume, che sembra davvero, almeno per un attimo, aver fermato il tempo e riportato indietro nel passato le lancette dell’orologio.

Il collaudato e valido team di collaboratori utilizzato da Aldrich anche in questa circostanza, garantisce d’altra parte la resa impeccabile della confezione in tutte le sue componenti (musica, montaggio, scenografie, costumi).

Kirk Douglas è efficacissimo (solo in qualche momento sporca un poco il risultato gigioneggiando un po’ troppo, come nella scena del bivacco notturno intorno al fuoco sulle note dell’intramontabile Cu-cu-ru-cu-cu Paloma) nel tratteggiare un personaggio e la sua controversa psicologia, utilizzando una variegata gamma espressiva che gli permette di essere accattivante; seducente; persino disarmante nei momenti in cui è necessario far trapelare l’inquietudine lacerata della sua anima; dolce; rassegnato; implacabile quando è chiamato ad esprimere la rabbia, ad incutere paura, a rappresentare la forza del dominio. Gli fa da contraltare la monolitica e un po’ rocciosa prestazione di Rock Hudson in un ruolo scialbo e poco definito come quello di Stribling. Accanto a loro una giovanissima, splendente Carol Lynley e una intensa Dorothy Malone, ancora una volta attrice di rango superiore che avrebbe meritato molto di più di quanto invece Hollywood non sia stato in grado di riconoscerle.

 

i Il buon soldato, romanzo di Ford Madox Ford che in origine avrebbe dovuto intitolarsi The Saddest Story, è un libro “a ritroso”, in cui il protagonista (John Dewell) dopo la morte della moglie, ricostruisce la storia della loro amicizia durata per ben 9 anni, con gli Ashburnhaum, una coppia di inglesi, a sua volta densa di intrighi e di inganni che si rivelano progressivamente. Ogni personaggio risulta portatore di una cangiante verità, di volta in volta carnefice, poi vittima, e di nuovo ancora carnefice, fino alla morte e alla pazzia. Pur con le differenti implicazioni, sembra quasi che anche Aldrich, magari inconsciamente, si sia rifatto per qualche verso al libro, nel definire le sue linee narrative, visto che anche lo stile di Ford è all’apparenza naturalistico, ma zeppo di reconditi significati “lessicali”. L’uso della lingua è infatti tutto in funzione della storia e cangia straordinariamente virando verso il pessimismo anche verbale via via che aumenta lo stato di prostrazione psichica del protagonista che si trova a dover affrontare quelle verità nascoste mai sospettate prima.    

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