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Le notti di Cabiria

Regia di Federico Fellini vedi scheda film

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La recensione su Le notti di Cabiria

di luisasalvi
8 stelle

 

(rispolvero un'analisi scritta più di mezzo secolo fa...) 
 

 

Le notti di Cabiria è il film che collega le precedenti escursioni, di tono un po' neorealistico e spiritualistico, nel mondo del sottoproletariato, alla trilogia sulla ricca borghesia romana (cui si aggiungono i due episodi di Le tentazioni del dot­tor Antonio e di Toby Dammit) che sembrano caratterizzare più compiutamente il mondo e l'arte felliniana.

Cabiria è una povera prostituta di periferia, tipico prodotto di quel misero sottobosco romano che costituirà lo sfondo al vuoto girovagare di Marcello ne La dolce vita; d'altra parte Cabiria stessa vivrà un momento di evasione nell'ambiente de La dolce vita; in entrambi i film, poi, c'è un episo­dio "religioso", qui di attesa di un miracolo al Santua­rio del Divino Amore, là di osservazione di un falso mi­racolo. Senza pretendere di stabilire un inesistente pa­rallelismo nella struttura dei due film, è comunque evi­dente in essi una certa analogia, pur sotto prospettive diametralmente opposte. La storia di Cabiria è una storia di luminose esaltazioni seguite da cocenti delusioni pre­sto dimenticate in una rinnovata fiducia nella vita.

Conosciamo Cabiria, all'inizio, proprio nel momento massimo di entusiasmo nel suo amore per Giorgio; ma subito do­po Giorgio la deruba della borsetta e la butta in Tevere. Salvata da alcuni ragazzini mentre, non sapendo nuotare, sta per annegare, appena rinviene corre a cercare ancora Giorgio, non volendosi convincere che questi l'ha abban­donata. Solo più tardi, nel corso della giornata, l'amica Wanda, che abita in una casetta vicino alla sua, riu­scirà a farle riconoscere e accettare la realtà. Allora butta nel fuoco, quasi in un rituale magico, tutti i "ricordi" di Giorgio che le sono rimasti; e, ormai rassere­nata, raggiunge Wanda e le altre prostitute alla Passeg­giata Archeologica. Cabiria è nuovamente entusiasta: per la "Fiat" di una collega, per il mambo che si mette a ballare in strada, con alcuni giovani amici (che questi siano protettori di altre prostitute non ha importanza: il tema di tale forma di sfruttamento non è sottolineato nel film, e forse nel 1956 non era rilevante e tragico come è diventato dopo). Un'allusione a Giorgio da parte di una prostituta matta la spinge a un violento litigio con questa. Separata e portata via in macchina vien fatta scendere, dietro sua richiesta, in Via Veneto. Qui, sperduta e intimidita a contatto di un mondo ricco ed ele­gante troppo diverso dal suo, Cabiria assiste a un li­tigio fra il celebre attore Alberto Lazzari e la sua amante Jessie. L'attore, nella rabbia del momento, in­vita Cabiria: la accompagna (o meglio: le ordina di seguirlo) in un night club e poi a casa sua. Cabiria vive momenti di un sogno favoloso, presto interrotto dal ri­torno di Jessie; e mentre questa riesce a riconciliarsi con l'attore, Cabiria deve nascondersi nel bagno, dove passerà la notte. A sera, nonostante la delusione finale dell'avventura, potrà vantarsene con le amiche. La conversazione è interrotta dal passaggio di una proces­sione, occasione all'episodio successivo, del Santuario del Divino Amore. Qui Cabiria, ispirata dal proposito analogo di Wanda e stimolata dal precedente contatto con la vita dei ricchi, prega per un cambiamento della sua vita, e se ne attende un vero miracolo, un mutamento improvviso che non arriva e - sembra dirci Fellini - non può arrivare. Questa volta la delusione, accentuata dal molto vino bevuto dopo, è più amara: Cabiria si isola nel suo dolore, e a sera si rifugia in un teatrino per distrar­si. L'ipnotizzatore che fa lo spettacolo la invita a sa­lire sul palco e, dopo altri numeri, la ipnotizza costringendola ad aprirsi con sincerità a un illusorio innamorato chiamato Oscar; la reazione delicatamente sentimentale di Cabiria colpisce lo stesso ipnotizzatore che la ripor­ta alla realtà fra le risate fragorose del pubblico. Cabiria, uscita dal teatro molto tardi per evitare di incontrare ancora spettatori ironici, viene fermata dal sedicente ragioniere Oscar D'Onofrio. Questi ha assistito allo spettacolo e, per la pretesa coincidenza del nome (una "fatalità"), è rimasto impressionato dal candore di lei e ora desidera conoscerla. Ne nasce un amore intenso, cui invano Cabiria cercherà inizialmente di resistere.

Quando finalmente Oscar lo chiederà di sposarla, essa correrà ad annunziarlo a Wanda, poi a cercare Frate Giovan­ni, un umile frate laico da lei conosciuto in preceden­za, per confessarsi (cerca proprio lui, pur sapendo che questi non può confessare). Infine, venduta la casa e ritirato tutto il suo denaro (la sua "dote"), Cabiria corre da Oscar, con cui passa un lieto pomeriggio. Al tramonto, sul lago di Albano, si accorge del nuovo, più feroce inganno: Oscar fugge con la borsetta contenente il denaro. Cabiria, dopo aver invocato disperatamente la morte, riprende a sera la strada e, circondata da un gruppo di allegri giovani che 1a salutano cantando, a sua volta recupera il sorriso e risponde al saluto.

 

Il film si apre e si chiude significativamente con due episodi di amore deluso in cui Cabiria viene derubata ed abbandonata; i modi diversi dei due episodi sottoli­neano l'evoluzione psicologica di Cabiria e contribuiscono a precisare la tematica del film, come già accadeva, nel film precedente, per i due "bidoni" del falso vesco­vo. Nell'arco del film, alternati a brevi immagini delle "notti" alla Passeggiata archeologica, si svolgono gli altri episodi, dell'incontro con Alberto Lazzari, della processione al Divino Amore, dell’ipnotizzatore. Di questi, mentre l'ultimo serve soprattutto da preludio al nuovo innamoramento, sottolineando l'animo sentimentale di Cabiria e la sua sete d'amore - e perciò la sua predisposizione all'ultima, più intenta esaltazione alienante (che sia tale risulta dalla struttura del film e da molti particolari del racconto, oltre che dalla tematica emergente dall'intera produzione felliniana) – I due episodi precedenti presentano altre due forme di alienazione minore, entrambe legate al desiderio di elevazio­ne sociale, di tranquillità economica, di dignità umana.

Del primo incontro, con Giorgio, assistiamo solo alla fase finale. Il film dunque dà poco rilievo alle gioie dell'incontro e all'effetto esaltante che esso deve aver avuto su Cabiria (del resto poco dopo Wanda dirà che Ca­biria lo conosceva da neppure un mese e non sapeva ancora il suo nome); eppure la delusione è amara, seguita a lungo fino all'avventura in Via Veneto.

Negli episodi successi­vi è sempre più seguita la fase dell'alienazione, spesso vista dichiaratamente come tale, mentre diventa più bre­ve, anche so più intenso, il momento della successiva de­lusione: nel ricco mondo di Alberto Lazzari le aspirazio­ni di Cabiria non son neppure precisate né confessate, tanto appare insuperabile la distanza che li divide, e la delusione permea già l'intera avventura, che viene perciò vissuta quasi interamente in una dimensione onirica; solo verso la fine Cabiria incomincia ad accettarla come realtà e ad entusiasmarsi, e proprio allora Jessie interviene a far crollare il mito; ma durante tutto l'e­pisodio, l'occhio di Fellini coglie il vuoto e la falsi­tà di quella vita che a Cabiria appare favolosa, preci­sando così l'aspetto alienante del mito che essa costi­tuisce per lei.

Anche al miracolo del Divino Amore Cabiria dapprima non credeva; ma dopo aver visto le speranze di altre amiche, del vecchio zoppo o soprattutto di Wanda, spro­nata dal suo desiderio di cambiar vita e confortata dall’esaltazione della folla, a poco a poco si convince e in­fine si abbandona con cieca fiducia alla preghiera, spe­rando in un miracoloso, improvviso cambiamento di vita. Maggiore, ed esplicitamente confessata, almeno a se stes­sa, anche se non precisata, è qui la speranza, più inten­sa la delusione successiva per il mancato cambiamento (ma in cosa avrebbe dovuto consistere?); più intensa, ma più breve rispetto a quella per l'abbandono da parte di Gior­gio ed anche rispetto alla quasi costante sfiducia (quasi una delusione anticipata) per l'incontro con l'attore.

L'episodio dell'ipnotizzatore - che da un lato ripete lo schema degli altri, da un'illusione ora esplicitamente irreale a un doloroso risveglio - serve a precisare le speranze di Cabiria: il cambiamento di vita interessa sempre, perché esso significa tranquillità e forse relativa "agiatezza" economica e posizione sociale dignito­sa; ma sopratutto interessa nell'ambito di un amore vero e duraturo. Ancora una volta, per le donne di Fellini, il mito del marito è il più radicato, l'ultimo a precisarsi e a crollare.

A questo punto ha buon gioco, il ragionier D'Onofrio, a convincere Cabina (perfino Fellini riduce ora sempre più le osservazioni ironiche): l'incontro si sviluppa in idillio delicato, ricco di sfumature, seguito a lungo prima della rivelazione finale; questa ne risulta tanto più amara, totalmente partecipata anche dal regista. Eppure il recupero è più rapido, più tranquillo, più sicuro. Il processo di liberazione dai miti, che in Giulietta avverrà ad un livello di consapevolezza, è già presente qui, e nello stesso ordine (in Giulietta si aggiungerà il mito sessuale-antisessuale, qui assente – o ridotto a una insicurezza "professionale" nell'episodio di Via Veneto - anche per ovvie ragioni psicologiche) anche se in modo istintivo e a livello inconscio: nel sorriso finale non può esserci che una generica fiducia nella vita, al di fuori di ogni possibile realizzazione pratica, poiché ormai Cabiria è precipitata, non più nella stessa situazione di prima, ma nella miseria più totale.

Eppure sorride per la consapevolezza, non importa quanto confusa in lei, ma evidente in Fellini, che la pienezza di vita e perciò anche la serenità può esser conseguita ovunque e in qualunque situazione, né dipende da qualche cosa in particolare; anzi, proprio il far dipendere la felicità da qualunque elemento, anziché cercarla nella propria vita vissuta autenticamente, condanna al fallimento ogni aspirazione, non solo per elementi esteriori ed accidentali, come pure spesso accade a Cabiria, ma soprattutto ed essenzialmente perché la possibilità di una vi­ta autentica non si trova in alcuna particolare realizza­zione umana, ma solo nel candore e nell'amore con cui l'uomo deve guardare alla propria vita, nella gioiosa freschezza con cui deve godere di ogni evento: perciò ogni illusione, prescindendo dall'esito negativo della vicenda, è subito vista da Fellini con occhio critico, da prospettive deformanti e nei suoi aspetti più alienanti; ciò accade un po’  meno nell’ultimo episodio, per rendere tutta l'amarezza che ha per Cabiria il crollo di questo più radicato e più credibile e più meraviglioso mito e di conseguenza più significativo il recupero fi­nale; ma probabilmente anche perché, inconsciamente, il borghese Fellini non riesce a condannare pienamente il mito del marito e preferisce affidare la più esplicita si­gnificazione alle menzogne di Oscar, senza scalfire troppo la validità, per la donna, del matrimonio o di un incontro "sincero".

Del resto, anche Giulietta arriverà a scoprire l'inutilità del marito, ossia la possibilità di vivere felicemente e autenticamente in qualsiasi situa­zione di fatto, solo dopo la scoperta del tradimento del marito stesso, dopo quindici anni di matrimonio: quindici anni che le prime scene del film fanno intravedere trascorsi in modo abbastanza felice.

Ora è vero che il crollo dei miti per i protagonisti felliniani è sempre affidato a circostanze accidentali e puramente "storiche", ma in generale Fellini evidenzia già prima efficacemente, durante tutta la fase dell'illusione, gli aspetti mistificati; anzi, proprio nel modo graffiante di cogliere e deforma­re ogni alienazione è - come si è già detto abbondantemente - l'aspetto più valido e più significativo dell'arte felliniana.

Qui invece Fellini ritrova un insospettato pudore e ritira sensibilmente le unghie; in Giulietta sa­rà nuovamente graffiante, ma solo di fronte a un tradimento e perciò a un comportamento anormale, non importa quanto diffuso socialmente, del marito; tutto il contesto del­l’opera felliniana precisa che la condanna è rivolta al mito in generale, a qualunque mito, ma di fatto il mito della donna per il proprio uomo non solo è visto come il più radicato in lei, ma è anche risparmiato in se stesso e stroncato solo al momento del tradimento. Si tratta co­munque di una limitazione di fatto che può interessare per conoscere l'uomo Fellini (ammesso che essa sia valida) ma non modifica la tematica emergente dal film.

Che Felli­ni creda nella possibilità di una vita autentica nell'am­bito della più misera vita di prostitute era comunque già ovvio fin dal primo suo film; e soprattutto appare conti­nuamente in questo, dove il comportamento di Cabiria rie­sce a diventare autentico anche in mezzo alle illusioni in cui ogni volta si butta o viene trascinata; e di vol­ta in volta arriva a commuovere il grande attore, l'ipnotizzatore e lo stesso "ragioniere" che per tanto tempo le ha mentito per derubarla e che pure ora non sa decidersi a farlo. Queste precedenti prove di autenticità giustifi­cano psicologicamente, ma sopratutto stilisticamente, il sorriso finale.

Stilisticamente è stata rilevata una cer­ta debolezza strutturale della vicenda, condotta attraverso una successione di episodi in parte semplicemente giu­stapposti. Mi pare che non solo - come pure è stato notato - la figura di Cabiria riesce a dare una sufficiente unità al film, ma anche sotto altri aspetti gli episodi sono ben articolati fra di loro: sostenuti tutti dal costante bisogno di elevazione sociale che spinge Cabiria, rappresentano anche, nella loro successione, quel progressivo ap­profondirsi dei miti, fino alla liberazione finale, che costituisce il centro tematico del film; infine anche narrativamente, psicologicamente, il raccordo tra i vari episo­di è generalmente ben motivato, come avremo occasione di rilevare nell'analisi dettagliata del film; solo l'arrivo della processione, occasione alla successiva visita al Santuario, ha un sapore un po' artificioso (anche se rientra in un preciso gusto felliniano - e non solo felliniano - e perciò stilisticamente coerente, l'arrivo improvviso di una precessione religiosa affatto inattesa e fuor di luogo).

A queste proposito è interessante notare una certa analogia formale tra questo film e Il Settimo Sigillo di Bergman. Prescindendo da un confronto generale fra i due registi, che pur sarebbe interessante, ma fuor di luogo qui, basti rilevate alcuni punti comuni dei due film che proverebbero una dipendenza diretta dell'uno dall'altro, se non fossero stati entrambi girati nella estate del 1956 e distribuiti nel 1957. Entrambi rischia­no di disperdersi apparentemente in una serie di episodi legati esteriormente dalla presenza di un protagonista (e scanditi e commentati, in quello, dalle varie fasi della partita a scacchi con la morte, come in questo dalle "notti" alla Passeggiata Archeologica), ma più intimamente raccordati come fasi della ricerca e dell'evoluzione psicologica del protagonista stesso. Ma più ri­levante è l'analogia fra le due processioni, pur nelle evidenti differenze dei contenuti dettati dalla diversa ambientazione storica: entrambe arrivano improvvisamen­te (anche se annunziate in precedenza dal dialogo) in un ambiente certo non preparato ad accoglierle, ma for­se per ciò vi riescono tanto più efficaci; il fumo del­l’incenso e la polvere della strada ne Il Settimo Sigil­lo corrisponde figurativamente alla nebbia del nostro film; comune è l'impressione esercitata sui protagonisti. L'analogia continua con la processione del giorno successivo al santuario del Divino Amore, nell'esasperazione delle forme rituali, nei volti e nei gesti quasi isteri­ci dei supplicanti, curiosamente e spesso crudelmente analizzati dall'obiettivo, sopratutto nel retorico, mistificante discorso del prete la cui voce tonante contrasta vistosamente con la sua mancanza di convinzione. Un altro elemento figurativo clamorosamente uguale, poi, è l'immagine del volto del frate dietro le sbarre del con­vento da cui si reca Cabiria, identica a quella della morte dietro le sbarre del confessionale. Sono analogie che, per il fatto stesso di non esser lega­te da una dipendenza diretta, indicano significative re­lazioni fra i due registi, che andrebbero approfondite. Qui basti notare che tanto è istintivo ma non necessariamente superficiale Fellini, sia nell'elaborazione concettuale sia nella creazione artistica, altrettanto è inve­ce intellettualmente ricercato (ma non necessariamente profondo) Bergman; e che quest'ultimo è sempre stato molto attento ai modi espressivi ed anche ai singoli detta­gli stilistici degli altri registi e in particolare di Fellini (il recente L'adultera, pur nei suoi risultati quanto mai deludenti, è estremamente istruttivo per le sue numerose e puntuali analogie con il pur diversissi­mo Giulietta degli spiriti di Fellini).

 

Poiché spesso il film è stato parzialmente frainteso oc­corre precisare e verificare alcune interpretazioni ine­satte. La principale è l'interpretazione religiosa, se­condo cui - sia pure con diverso sfumature - la conclusione del film è determinata dalla Grazia che illumina Cabiria. In questo senso l'impostazione più vistosamente erronea è quella di Aristarco, secondo il quale, per evidenti pregiudizi (ovunque pretende di riconoscere Kier­kegaard e di ritrovare solitudini ontologiche) i prece­denti protagonisti felliniani "e la peccatrice" Cabiria non possono che approdare alla "Grazia", e in tal senso sono dei predestinati"[1]; mentre il concetto di predestinazione è assoluta­mente estraneo al mondo felliniano, sia perché in que­sto manca qualsiasi prospettiva escatologica e l'unica positività è assolutamente terrena, di accettazione del­la vita; sia perché tutto il senso dell'opera felliniana è un invito ad accettare e godere la vita - i prota­gonisti felliniani sono tutti invitati - e la riuscita dipende dalla volontà del chiamato più che dall'intensità del richiamo (comunque sempre da elementi umani) e chi vuole raggiunge l'autenticità attraverso la lotta e con coraggio: tutte cose incompatibili con la prede­stinazione. Quanto alla "peccatrice" Cabiria", essa non appare mai tale, fino all'incontro con Oscar (mai: nep­pure al Divino Amore, dove invece è sottolineata la coscienza di "peccatore" dello zeppo, che pure subito do­po è rassegnato al mancato miracolo): non c'è senso di peccato in Cabiria né nel modo di osservare di Fellini, anzi, addirittura il peccato non rientra nel mondo felliniano se non come concetto alienante, mistificazione borghese legata alla superstizione (come nel Divino Amore: dove ci si confessa per ottenere i miracoli, in una sorta di grottesco, magico baratto) o all'altro mito del matrimonio: per questa ragione Cabiria recupera il senso del "peccato" solo nel momento in cui si immerge nel mi­to di un matrimonio "onesto"; ed anche allora solo in quanto legato alla confessione, e questa solo come rap­porto umano: sicché potrà ancora parlare ad Oscar del suo passato presentandolo come doloroso ma niente affatto peccaminoso.

E' più difficile contestare il concet­to stesso di Grazia, purché visto al di fuori dello sche­ma proposto da Aristarco. Difficile, per esempio, fare una replica puntuale alla analisi di Taddei, che pur interpretando il film in senso genericamente cristiano, evita nelle Schedario ogni affermazione precisa in que­sto senso. Infatti in Fellini c'è un richiamo di salvezza - traduzione di

ciò che per il cristiano è la Grazia - e c'è la necessità di un impegno individuale e un recupero della "semplicità", per seguirlo; ma il richiamo è generalmente immanente, è la vita stessa che si impo­ne, o si lascia intravedere, al di fuori di ogni mistificazione. Il discorso propriamente religioso, anche se non è negato esplicitamente, non è mai proposto come po­sitivo; più spesso invece, come proprio in Cabiria, è condannato nelle sue varie alienazioni. La presenza del fraticello è troppo semplificata a simpatica macchietta per poter costituire un ideale soluzione religiosa - anzi, proprio dal punto di vista religioso, essa viene goffa­mente semplificata a formula convenzionale (ma è proprio ciò che ci vuole nell'attuale alienazione di Cabiria) e recuperata invece per la giocondità tutta umana del frate. Come se non bastasse, poi, il frate del convento riporta alla dimensione morta della religione; e Cabiria, lontana da ogni preoccupazione sacramentale e unicamente bi­sognosa di rapporti umani, aspetta il suo frate pur sapendo che questi non la può confessare. Anche in conclusione del film Cabiria recupera il sorriso in un nuovo fresco rapporto umano con i giovani spensierati: simbolo della vita, sì ("ragazzi di vita", seconde una prospettiva pa­soliniana certamente presente nel film, sopratutto all’inizio ma anche qui; prospettiva comunque assai vicina a quella di Fellini), ma certamente non simbolo di Grazia divina o comunque di aspirazione religiosa. Taddei travi­sa proprio il nocciolo del mondo felliniano e si lascia andare a parlare di trascendenza (anzi, addirittura di "un'eccessiva trascendenza in certe battute di personaggi comuni"), nell'entusiasmo del primo momento[2]; ma ripensando il film per le "Schede" del 1963, pur confermando la stessa interpretazione, è più prudente nelle affermazioni.

Come non esiste per Cabiria (né per Fellini) il senso del peccato, né della Grazia cristianamente intesa, così non ha senso parlare di re­denzione, desiderata o attuata: non ha senso, se intesa cristianamente, perché questa implica i due concetti precedenti; ma ancor più intimamente non ha senso in genera­le perché il tema del film è proprio che non ha importan­za, per la vita e per la felicità, né un semplice miglio­ramento sociale ed economico né l'abbandono di un mestie­re "umiliante" e "turpe". Anzi, è proprio nella semplice ed ottimistica accettazione della propria situazione, che Cabiria ritrova l'autenticità: è questa l'unica vera re­denzione. Fellini tende addirittura a suggerire, in que­sti primi film, che solo negli ambienti più umili è possibile una realizzazione autentica; in ciò probabilmente sostenuto, in questo film, anche da Pasolini (che però a sua volta, dopo Fellini, arriverà ad ammettere anche per il ricco la possibilità di una realizzazione auten­tica con l'unica riserva, almeno di fatto, di andare a prendere il ricco nel napoletano ed in altri tempi).

E' chiaro che una tale impostazione esclude anche, almeno dalla tematica centrale del film, ogni precisa polemica sociale. Questa emerge ovviamente, nello spettatore, dai fatti stessi. Ma in un certo senso il film si pone addi­rittura oltre le considerazioni sociali sullo sfruttamento economico o sull'ingiustizia: Cabiria, nonostante tutto, è permeata di miti borghesi; il suo senso della dignità umana è legato al concetto di proprietà, ribadi­to più volte con orgoglio ("la casa dove abito è mia"; "perché io con le altre non ci ho mica niente da spartire: quell'altre dormono sotto gli archi a Caracalla. Ma cosa se crede lei ? Io ci ho casa mia, sa! con l'acqua, la luce, il pibigas, con tutte le comodità. Non mi manca niente !"), il suo desiderio di miglioramento è tutto materiale, oppure legato al mito dell'amore "onesto". La sua evoluzione, la "salvezza", la conclusione ottimistica del film consiste essenzialmente nella liberazione da questi miti borghesi. Una volta eliminati tali miti non ha più neppur senso il distacco sociale: Cabiria ha più dei ricchi, assai più di quando aveva una misera casetta ed un piccolo conto in banca, perché ora ha la vita; non le serve più la giustizia sociale. In questa prospettiva la stessa polemi­ca sociale rientra nelle categorie borghesi, e viene perciò istintivamente superata nel film, sia pure per approdare ad una posizione politicamente sterile (ma è ben noto che Fellini non ha mai pensato di proporre soluzione politiche). La polemica, dunque, non è sociale né soltanto ideologica anti-borghese.

Eppure, paradossalmente, ancora una volta Fellini resta radicato agli stessi miti borghesi che pur combatte (ma ciò che è notevole in lui è che ne è sempre cosciente: di qui la forza e la precisione delle sue deformazioni e insieme la costanza di un elemento di simpatia sempre presente in esse), e noi come lui e forse in modo più inconsapevole (a giudicare dai saggi critici sul film penso di poter veramente parlare a nome di tutti). Solo così tutto il finale del film raggiunge la sua mirabile efficacia espressiva; se non ci fosse totale partecipazione del regista e dello spettatore al dramma di Cabiria delusa nell'amore o derubata di tutto ciò che possiede, anche la precisa espressione cinematografica potrebbe riuscire retorica oppure (se il distacco dal contenuto drammatico è maggiore) addirittura ironica; il che non accade. Eppure tut­to il film tende a convincere Cabiria e noi che amore e denaro (e superstizione, e successo, e considerazione sociale ecc), non hanno alcuna importanza. Non solo, ma lo stes­so sorriso finale, la potente forza vitale che vibra in quel recupero, non sarebbe tale se non fosse stata tanto amara la delusione precedente: eppure il senso di quel sorriso è proprio nella sicurezza che ciò che Cabiria ha perso in fondo non conta. Del resto Fellini non rifiuta i valori della borghesia - come non rifiuta nulla di ciò che trova nella vita - ma solo quell'assolutizzazione mortifi­cante che ne viene fatta di solito; liberati dal loro aspetto alienante, potranno essere recuperati (e in questa lu­ce torneranno tutti da Giulietta ormai liberata come "ami­ci, amici veri... Adesso possiamo restare - vuoi?").

Il discorso, qui, non è ancora enunciato; ma è implicito da sempre nel modo espressivo di Fellini, e sembra toglie­re quell'apparente contraddizione che abbiamo rilevato, e che comunque, non che danneggiare la conclusione del film, la arricchisce ulteriormente. Comunque, il recupero di tutto ciò di cui prima ci si è liberati (a parte il fatto che non appare ancora esplicitamente qui, ma solo in 8 ½ e in Giulietta degli spiriti) non significa ripiegamento su se stesso, o sul proprio passato, o addirittura sulla propria infanzia: i miti possono essere ricordi dell'infanzia ma più spesso sono "gli altri"; e questi e quelli ver­ranno recuperati positivamente quando avranno perso tutto il loro aspetto alienante.

Perciò non esiste una opposizione fra sé e gli altri, un ripiegamento su sé e sul proprio passato ed una chiusura al mondo: non esiste in generale, nel mondo felliniano, e tanto meno in questo film dove Ca­biria è costantemente proiettata sul mondo, prima in di­mensioni alienanti e poi, nel sorriso finale (anch'esso rivolto al mondo, al prossimo), finalmente in modo autentico:che è, sì, accettazione di sé, ma di sé nel proprio ambiente, nella propria situazione storica, in mezzo agli altri: senza gli altri non ci sarebbe stato nemmeno il sorriso.

Lo stesso episodio del prestigiatore, che secon­do Aristarco[3] è "indicativo di un incanto, una magia, attraverso i quali Cabiria torna all'infanzia", in realtà è tutto proiettato in speranze future e nulla ha a che fare con l'infanzia: l'unico cenno al passato, a "quando avevo diciotto anni" (che non è in­fanzia: tanto più in quanto più tardi Cabiria, pur confer­mando il particolare che interessa qui, dei "capelli neri, lunghi fin qui", dirà che a quindici anni già faceva la prostituta), è un delicato rimpianto per una bellezza fisica che ormai sente di aver perso (e si ricollega al suo to­no dimesso di fronte alle prostitute d'alto bordo di Via Veneto) e che comunque desidera solo per offrirla all'uo­mo che ama. Ma Aristarco continua imperterrito, e dopo es­sersi creato i mostri grida di paura: "e sgomenta questa rinuncia del regista per la scoperta del mondo fuori dal carcere della memoria, il suo tentativo di assorbire il presente nel passato e nella Grazia" ....

L'osservazione fatta serva a correggere altre interpreta­zioni simili, anche se meno vistosamente erronee, di chi vede come tema centrale del film la solitudine umana (che pur esiste in esso; ma in parte per motivi storicamente contingenti - anche se artisticamente e tematicamente ne­cessari - , in parte per la stessa prospettiva alienante in cui son visti gli altri: mentre con Wanda e forse con frate Giovanni c'è comunicazione sostanziale, vivissima, anche se in forma estremamente rudimentale, piena di reticenze di silenzi o di menzogne che in pratica riescono delicatamente trasparenti) o di Del Fra che analogamente[4] vuole individuare l'unico "legame tematico e a volte stilistico" del film nell'opposizione tra gli incontri di Cabiria "con i richiami della falsa-magia" e quelli "con il magico puro - cioè con se stes­sa -" degli episodi del prestigiatore e dell'ultimo innamoramento, che in realtà sono espressione dell'ultima, più radicata alienazione (solo in questo senso più "sé stessa"): che consiste comunque nel desiderio di un in­contro con un altro.

Per quel che riguarda l'impostazio­ne stilistica del film si è fatto l'ovvio confronto con La strada, ed altri, frequenti in generale a proposito di Fellini, con Chaplin, con il neorealismo e in particola­re con Rossellini; e si è parlato spesso di barocchismo. Mi pare che ci sia del vero in tutti questi riferimenti (per quanto essi possano combinarsi assieme); ma per non restare ad un livello di facile impressionismo occorre­rebbe far corrispondere un'analisi attenta degli altri termini del confronto, che qui sarebbe fuori luogo fare.

Piuttosto mi sembra esatta ed importante l'osservazione che "non solo tra sequenza e sequenza, ma a volte tra inquadratura e inquadratura, c'è diversità di stile"; che non vedo tuttavia perché, in astratto, debba costi­tuire un elemento di condanna; viceversa, in generale, nel mondo felliniano tale varietà di stile è espressione viva di quella carnosa varietà che è della vita; in par­ticolare, in questo film, essa è tipica, e riesce felicissima, nel primo episodio notturno alla Passeggiata Archeologica di cui riparlerò nell'analisi dei singoli episodi.

Va fatta invece qualche riserva sull’uso della musica, a volte troppo "protagonista", secondo il gusto dell'epoca (ma bisogna dire che, rispetto ai film contemporanei, c'è già molto ritegno); anche se la capacità di Rota ad immedesimarsi nel mondo felliniano e ad esprimerlo in musica attenua il rilievo stesso.

Protagonista figurati­va è soprattutto, come nei film precedenti, la campagna, vista come immensa distesa arida e assolata; alternata alle solite vie deserte, o quasi, di notte, ed ora anche ai sontuosi interni che torneranno nei film successivi; e l'acqua, qui fiume e lago anziché mare come di solito, ma comunque costante in Fellini.

 

Non so se la collaborazione di Pasolini si è limitata al dichiarato "adattamento dei dialoghi romaneschi", ma certamente, se è andata oltre, i punti in cui più deve essersi esercitata sono l'inizio e la fine, in cui attor­no a Cabiria danzano e vivono spensieratamente quei ragazzi romani a lui tanto cari. È vero che anche Fellini guarda ai giovani in modo simile, ma senza soffermarsi a lun­go, di solito, e senza renderli cosi importanti anche nar­rativamente come sono qui. Comunque sia, il primo episodio mi pare un po' lungo: dopo il C.L.L. di Cabiria immersa nella natura della campagna romana durante la sua bre­ve esaltazione sentimentale e poi durante il rapido pre­ciso movimento di Giorgio che la deruba e la butta "a fiume", è felicemente riuscito ancora il passaggio a inquadrature ravvicinate, quasi grottesche, su di lei che sta per affogare: quella tecnica, finora usuale in Fellini, di presentare i protagonisti delle singole sequenze dapprima in C.L. o C.L.L., inseriti nell'ambiente, per avvicinarsi ad essi solo dopo che si è svolta un’azione drammatica, per coglierne i riflessi sul volto, è qui ripetuta in un’efficace variante che, oltre a cogliere come sempre la reazione della protagonista, ne sottolinea l'aspetto grottesco; infatti non troviamo il solito P.P., bensì i particolari delle mani affioranti dall'acqua, ed i vani tentativi di restare a galla, che ottengono il solo effetto di sospingere Cabiria verso il centro del fiume. Il resto è gratuito ed inutilmente lungo, anche se non privo di notazioni interessanti. Dovrebbe ser­vire a creare l'ambiente in cui vive Cabiria; ma in veri­tà l'ambiente vero di Cabiria è un altro, e Fellini sa­prà crearlo efficacemente durante il racconto, senza bisogno di divagazioni o sottolineature; piuttosto la presenza dei soliti ragazzini pronti a entusiasmarsi di fronte a tutti i fatti della vita (in cui rientra anche la mor­te) come di fronte ad uno spettacolo, generosi ma in spirito sportivo, costituisce il contrappunto - di importan­za anche tematica - al modo troppo drammatico e partecipato (alienato) con cui Cabiria affronta - o, meglio, per ora, rifiuta - la realtà; e serve a creare un efficace parallelismo con la conclusione del film in cui analoghi ragazzini trascinano invece Cabiria al sorriso.

Ma il prolungarsi ed il disperdersi del racconto in tanti dettagli inutili risponde più ad un compiaciuto gusto folklo­ristico e documentario estraneo allo stile complessivo ed ai significati del film, riallacciandosi semmai a quel deteriore gusto neorealistico dell'epoca, ambiguamente oscillante fra il patetico e l'umoristico a buon merca­to, che il resto del film ha saputo costantemente superare. Analoga osservazione vale per le colorite (ed in sé gustose) reazioni di Cabiria.

Efficacissimo invece tutto il successivo rapporto con Wanda, al ritorno di Cabiria nella sua povera ma linda casetta della borgata di Acilia: dove veramente, con poche notazioni delicate, viene ricreato l'ambiente, la vita, il carattere, il tipo di rapporto con Wanda, ed insieme la vicenda di Giorgio ed il dolore che Cabiria ne prova e la sua ostinazione a rifiutare la realtà dell'abbandono. Cabiria sa benissimo cosa è acca­duto, ma non vuole ammetterlo e chiama Giorgio, illuden­dosi che egli possa esser tornato nella casa di lei: l'a­lienazione da sé e dalla realtà è espressa simbolicamen­te con delicatezza nel suo restar chiusa fuori dalla sua stessa casetta, poiché le chiavi sono rimaste nella bor­setta rubata. Intanto l'episodio, costringendola ad arrampicarsi su un bidone per entrare in casa dalla fine­stra, getta nuova luce sulla povertà dell'abitazione e della vita di Cabiria; mentre subito dopo il suo uscire strizzando il vestito bagnato per stenderlo ad asciugare e poi le immagini del lindo interno dicono il dignitoso ordine e pulizia di Cabiria, piccola borghese orgogliosa della casa di sua proprietà (non a caso il termine stes­so significa anche decoro, oltre che possesso: identificazione di significati evidenti in Cabiria).

Ma il riusci­tissimo nucleo poetico della sequenza è il rapporto con Wanda, fatto di menzogne e reticenze trasparenti e che inconsciamente vogliono esser tali, perché Wanda è un po' la coscienza di Cabiria, amata ed odiata, chiamata e insieme respinta, proprio come può accadere con la coscien­za. Cabiria la chiama subito per sapere se ha visto Gior­gio… Domanda assurda ma doppiamente giustificata, poiché mentre continua l'assurdità della ricerca di Giorgio, tutta condotta sul rifiuto di ogni riflessione logi­ca e senso della realtà, insieme chiede implicitamente

l'intervento dell'amica che le apra gli occhi e che, costringendola al dolore della presa di coscienza, nello stesso tempo la consoli. Sulla stessa linea di ambivalenza continua tutto il dialogo, poi ripreso a sera; dà risposte evasive per mascherare la realtà, ma fornisce casualmente nuovi particolari su cui Wanda possa indagare; si rifugia in ca­sa dalla finestra, come per chiudere l'argomento, ma pre­sto ne riesce per la porta, quasi nel timore che Wanda possa andarsene. Così fino all'ultimo toccante particolare quando, ridotta all'estremo della resistenza, caccia Wanda, e subito la insegue per ritentare un'ultima dispe­rata argomentazione che è già una resa, ed anche un modo per trattenere ancora l'amica cacciata e per non restare sola, "ma proprio per quaranta mila lire doveva buttarmi a fiume?", e la risposta inesorabile, conclusiva di lei: "anche per cinque mila ... T'ha buttata! Lo vuoi capite che t'ha buttata!" ). Rimasta sola, Cabiria va a prendere la sua gallinella e se la accarezza, nell'ingenua ricerca di calore e consolazione.

Tutta la conclusio­ne della sequenza si mantiene dignitosa ma senza colpi d'ala; da notare forse la finezza di quella decisione "hai finito !", come se fosse lei a cacciare Giorgio e ad impedirgli un eventuale ritorno; o, da un punto di vista generale, l'aspetto magico, rituale, del fuoco in cui Cabiria butta tutto ciò che era stato di lui: ripre­sa, più sviluppata ed inserita in un preciso contesto narrativo, ma forse proprio per ciò meno suggestiva (e banalizzata in un certo facile umorismo), del rito del fuoco di Gelsomina.

La prima scena della Passeggiata Ar­cheologica è forse, stilisticamente, la pagina migliore del film: su una linea tipicamente felliniana, presente dall'inizio ma che diverrà dominante nei film successi­vi e che ha fatto spesso parlare di affresco, finendo per far passare in second'ordine le pur grandissime ca­pacità narrative di Fellini, di cui abbiamo appena visto un saggio. Del resto in questi stessi episodi l'affresco non esclude l'elemento narrativo, qui costituito da un ritorno conclusivo della vicenda di Giorgio e insieme dall’avvio dell'episodio successivo di Via Veneto; mentre, meno esplicito ma più essenziale all'intera vicenda del film, c'è lo sforzo di Cabiria (ripetuto poi più rapidamente e con maggior sicurezza e consapevolezza alla fine) di di­menticare la precedente delusione in una spensierata alle­gria, che però qui, all'inizio della parabola, ha ancora una precisa componente alienante, unita a un pur since­ro entusiasmo e gioia di vivere.

È questo anche il sen­so dell'affresco in cui la vicenda di Cabiria si inseri­sce armonicamente: un alternarsi continuo di inquadrature sempre diverse, che colgono fatti e persone in apparenza semplicemente giustapposti ma in realtà intimamente legati nella comunanza dell'aspetto alienante, sottolineato ed esaltato nell'ulteriore alienazione della convivenza, ma anche gioiosa manifestazione della positiva varietà della vita. Il ritmo espressivo ripete la festosa armonia dello insieme pur cogliendola spesso attraverso stridenti note di montaggio fra le singole inquadrature. Danza macabra, grottesca eppure sostanzialmente allegra, che esprime fe­licemente in poche immagini tutto il mondo felliniano.

A questa vigorosa efficacia di insieme che è dell'affresco si aggiunge l'intensità umana delle singole inquadrature, che colgono, di ogni personaggio, il carattere e tutta la storia essenziale, in una breve sintesi narrativa in cui Cabiria appare come gli altri, personaggio immediatamente trasparente. Stilisticamente la struttura di tali episodi può essere paragonata forse ancor meglio che ad un affre­sco ( e fra questi in particolare a quelli di Michelangelo, dove veramente ogni figura è la potente sintesi di tut­ta una personalità e una storia, ma si impone prepotente­mente, mi pare, al di fuori della struttura complessiva, quasi ribellandosi ai ristretti limiti impostigli da que­sta, alla ricerca di una maggiore individualità: riflesso di un'epoca fiduciosa nella scoperta dei valori dell’individuo) ai combo del jazz moderno, sul tipo del "modern jazz Quartett", dove l'armoniosa unità dell'insieme nasce proprio dalla libera improvvisazione dei singoli. (E' ov­vio tuttavia che sia sociologicamente sia tematicamente il paragone non regge, poiché nel film le singole improv­visazioni nascono dalla mente dell'unico regista). In più c'è, in Fellini, il senso di alienazione emergente sia dai singoli elementi, sia dalla loro stessa partecipazio­ne all'insieme; ma tale emergenza (che peraltro non so se non sia riscontrabile anche in certi combo del jazz: per esempio in quello di Charlie Parker) non pregiudica la stretta analogia stilistica della struttura.

L'attacco è dato da un lungo straordinario " a solo" della prosti­tuta matta, che, sullo sfondo di un arco cieco che le fa da grottesca cornice - quasi immensa nicchia – si abbandona ad una tragica improvvisazione dove un estremo virtuosismo si accompagna ad una stupefacente ricchezza umana che tutto (lo sfondo, le immagini, i commenti delle compagne e sopratutto i suoi stessi modi espressivi, la sua pazzia) contribuiscono a rendere grottesca; e proprio
dall'eccesso della deformazione grottesca - come spesso in Fellini - emerge nuovamente il senso tragico di quella povera donna disperatamente ancorata ai miti della digni­tà e della bellezza, quella definitivamente perduta fin dall’inizio per la "professione" scelta, questa ormai tramontata (con tutte le tragiche conseguenze che ciò comporta per la professione stessa, alla quale già era stata sacrificata la dignità) sono gli stessi problemi delle sue compagne, da cui vuole distinguersi nel rifiutare la realtà della propria posizione; e fa la diva o la morali­sta, o infine la pettegola malvagia, nel colpire la sopravvenuta Cabiria, per odio a chi le fa da specchio.

La sua presenza domina tutte il resto della scena, costi­tuendo per tutte le altre prostitute un'amara proiezione del loro destino, delle loro proteste e speranze taciute: stilisticamente simile alla sonorità tipica di uno strumento che dopo l'a solo continua ad accompagnare gli altri, per tacere solo momentaneamente durante gli a solo altrui.

Considerazioni analoghe possono esser fatte per tutte le voci che intervengono successivamente: ora è la volta della "Fiat" di Marisa e del diverbio di questa con il suo protettore, variazione sui temi dell'aspirazione agli agi borghesi e insieme della miseria della loro vita reale; poi, dopo l'arrivo di Cabiria su un "Ape", l'ammirazione di questa per l'automobile occasiona un'esaltante improv­visazione a due voci, in cui Cabiria sviluppa folli arabeschi sul tema statico della "Fiat" ("certo che la macchina è una gran cosa… la Fiat è sempre la Fiat.... La freccia a destra, la freccia a sinistra"), men­tre interviene un sapientissimo commento musicale a sotto­lineare ironicamente l'aspetto alienato ma anche quello patetico (e un forte pathos mascherato sotto una note­vole dose di umorismo ed anche di amara ironia è presen­te in tanti grandi deljazz, a partire dal notissimo Armstrong).

Mentre la matta si inserisce nuovamente, Wanda svolge un suo breve dimesso episodio, significativo del suo carattere dolce, modesto e professionalmente diligente (a ricordare anche per inciso, il carattere della riunione): corre presso una macchina che si è ar­restata, e che riparte appena lei si avvicina.

E' inutile continuare a sottolineare ancora la ricchezza di significati e la varietà di toni di ogni inquadratura: sulla falsa­riga di quanto ho detto finora è facile proseguire. Basti ancora notare che il mambo ballato qui da Cabiria verrà ripreso in modi e contesti e significati diversi altre due volte nella stessa serata, indice sempre dell'istintiva gioia di vivere che è in Cabiria, ma anche di uno sforzo che essa stessa compie - lanciandosi nel ballo - per conservare o recuperare tale gioia: e perciò in sintonia con il significato dell'intero film.

La sequenza è conclusa opportunamente con il litigio di Cabiria con la matta e con la sarabanda finale delle più disparate reazioni dei presenti, che conclude l'epi­sodio di Giorgio e prepara bene la partenza in macchina di Cabiria e la sua rabbiosa, assurda decisione di andare a Via Veneto: come una boutade messa lì in un momento di rabbia, ma che tradisce ancora una volta il solito desi­derio (quasi una ossessione per lei come per le compagne) di elevazione sociale (e nel rifiuto secco, in macchina, alla proposta dell'amico di Marisa di trovarsi un protettore c'è un ultimo rabbioso ricordo di Giorgio).

 

Al confronto con le due sequenze precedenti, il lungo episodio di Via Veneto e della favolosa avventura con il ce­lebre attore riesce complessivamente più debole: troppo diluito, con molte cose banali o troppo insistite, mentre la descrizione e derisione del vuoto mondo dell'attore, se è interessante per l'evoluzione filmica il Fellini (ed in tale contesto ne ho già parlato) non riesce aspramente graffiante come nei film successivi. Anche le scene nella sontuosa villa dell'attore, nonostante alcuni spunti note­voli, sono appesantite da qualche sentimentalismo di maniera e da troppe facili "gag": i cani per le scale, la musi­ca di Beethoven ("non è il mio genere"....; ma, poco dopo "vuol mettere quella musica ..... ho capito che è bella": potenza dell'arte! ...), la camicia di seta, la porta del­l'armadio con carillon, l'aragosta, la porta a vetri contro cui la delusa Cabiria sbatte nell'uscire dalla villa.

Tali rilievi sono necessari per ridimensionare il valore dell'episodio, che è stato spesso sopravvalutato, anche esteticamente, a causa della sua novità (di cui si è già detto e che tuttavia non costituisce in sé un valore artistico) e della immediata facilità espressiva dei suoi mo­menti migliori. Ma occorre anche riconoscere la validità di questi momenti e la notevole importanza strutturale del­l'episodio nel suo complesso, per quel che riguarda alcune felici osservazioni sul carattere di Cabiria e sullo svi­luppo della sua vicenda, e quindi anche sull'intero signi­ficato tematico del film.

Cabiria appare intimidita di fronte alla sontuosità di un ambiente che essa neppur osa desiderare di raggiungere: fin dall'iniziale ammirazione per le prostitute sontuose di Via Veneto, viste con ironia da Fellini, ma non certo Cabiria che, consapevole dell'in­feriorità del suo aspetto e dei suoi abiti dimessi, si sente a disagio e finirà per rifugiarsi subito dopo (nel rac­conto cinematografico) nella consolante alienazione del mambo che si mette a ballare per la strada quasi deserta; ma, anche qui, basta lo sguardo - anzi, la semplice pre­senza - del portiere del nigth-club a riportarla alla sua triste realtà: ed è commovente il suo timido cenno d'invito, fatto senza convinzione, per recuperare almeno una certa sicurezza e dignità professionale; così come le successive, secche - proprio perché timide - ribellioni sono una ricerca di dignità umana che sente calpestata dagli altri, dal portiere che la invita ad andarsene o dalla sopravve­nuta Jessie che la urta inavvertitamente.

Continua, sulla stessa linea, per tutto l'episodio, l’ammirazione ed insieme il senso di inferiorità della piccola borghese (tale Cabina si ritiene, con la sua casa e il suo conticino in banca; e tale è effettivamente per mentalità ed aspirazio­ni) di fronte al gran mondo, che pur Fellini ci rappresenta in tutta la sua vanità e le sue alienazioni; rare, e comunque in generale con valenza ironica, sono le inqua­drature estatiche in soggettiva di Cabiria; più spesso si alternano inquadrature oggettive, in cui l'ironia nasce dal fatto stesso più che da una precisa deformazione descrittiva (come invece accadrà spesso in seguito), ad immagini di Cabiria, ironiche anch'esse per il semplice ac­costamento dello sguardo incantato di lei al vuoto o alla banalità di ciò che provoca la sua ammirazione: ne nasce spesso quella comicità un po' facile di cui ho fatto qualche esempio, ma a volte anche una più riuscita atmosfera magica, in cui l'ironia del regista si fa più delicata fondendosi senza perdersi ad una certa commozione per l'ingenuo entusiasmo di Cabiria. Come di fronte all'ot­tima scena del litigio dell'attore con Jessie: costoro abituati a trascurare la presenza di estranei inferiori che non possono avere il diritto di giudicare; quella abituata ad osservarli da un'incolmabile distanza, come se agissero su uno schermo; commentata poi da una osservazione successiva, sociologicamente esatta anche se facile, quando Cabiria apprenderà con meraviglia che le vicende dello schermo non sono reali; ma ora non lo sa, ed il suo atteggiamento è quale sarebbe al cinema, di fronte ad una gran scena del suo attore prefe­rito; oppure, più tardi, con maggior partecipazione all’entusiasmo di Cabina, quando lei bacerà la mano di Lazzari, in un trasporto di entusiasmo e di gratitudine per la condiscendenza di questi. E l'attore stesso - al­tra efficace osservazione psicologica - ne sarà commosso; dopo la non richiesta autodifesa ed autoesaltazione di Cabiria (ricca di altri felicissimi risvolti psicologi­ci) che, ricordando la propria qualità di "possidente", si pone in un certo senso, polemicamente, sullo stesso piano dell'attore, c'è il ripensamento che la riporta al senso dell’abissale distanza che la separa da quello; e così, dopo averne richiamata l'attenzione ora ne su­scita una certa commossa simpatia e riesce a farne vibrare qualche corda umana. I moventi borghesi, classisti, che conducono a questo tentativo di comunicazione autentica, presto abortito per l'improvviso ritorno di Jessie, costituiscono una riserva all'umanità affiorante nell'attore ed anche a quella, più impetuosa e vitale ma pur sempre alienata, di Cabiria; ma si accordano anche al sostanziale ottimismo di Fellini, che ammette ovunque, in modo sempre più netto e in seguito chiaramente consapevole, la possibilità di una realizzazione autentica; inoltre, rilevando sempre la costante emergenza di tale possibili­tà attraverso i successivi miti in cui Cabiria sprofonda, prepara la più dolorosa ma più completa liberazione finale, che sarà liberazione dai miti che assolutizzano un rapporto rispetto agli altri, ma non liberazione dai rapporti con gli altri in generale e chiusura in se stes­sa; ché, anzi, tutti i rapporti, ormai ridimensionati, potranno venir recuperati, simbolicamente, nel sorriso rivolto al gruppo di ragazzi che circonda Cabiria.

Fra i momenti migliori è certamente l'incontro con Lazzari: dal breve ballo per la strada alla partenza in macchina (ne ho già parlato). Dopo, il racconto si fa più dimesso, per tutta la scena del night-club, che annun­zia già quelle de La Dolce Vita, ma resta sostanzialmente impoverita proprio dalla presenza di Cabiria, facile occasione a qualche gag su di lei o sulle sofisticate signo­re che la guardano con aria critica: c'è sempre il tipico Fellini, e se ne sente l'unghiata in tutto ciò che è de­scrizione dell'ambiente (quasi mai in soggettiva di Cabi­ria, e sempre fortemente ironico, checché ne dica B. Rondi, che, come fa spesso, si abbandona a fantasie non solo in­terpretative, ma anche di lettura, in tutte queste pagine (165 – 170) del suo libro su Fellini: qui, per esempio, riesce a cogliere un "trionfale, vendicativo ritorno di Cabiria nel nigth-club" proprio dove vien da rimproverare invece a Fellini un certo abuso nell'ironizzare sulla timidezza di Cabiria, che cerca quasi un'autorizzazione del portiere - "m'ha detto d'entrare" - e poi si sperde nel tendone che copre l'ingresso alla sala, e così via; oppure scopre "una nuova verginità di signifi­cati, d'incanti" attraverso gli occhi di Cabiria, mentre Fellini guarda con i propri, e deforma e deride).

Anche la recitazione della Masina raggiunge qui alcuni momen­ti particolarmente felici, ma che restano pezzi di bra­vura un po' isolati e gratuiti (come la reazione compia­ciuta alla frase dell'attore: "sono con la signora"). Altrettanto gratuito è, in casa dell'attore, un brano di grande bravura stilistica: quando Cabiria, incerta, intimidita e tuttavia (per un'improvvisa precisa decisio­ne giustamente osservata dal regista) baldanzosa, sale di corsa le scale, con un'andatura che esprime ancora il suo stato d'animo; un'inquadratura che sottolinea l'immensità paurosa dell'architettura, che ne isola ed immeschinisce la figura mentre sul soffitto ne viene proiettata l'ombra, in una deformazione grottesca delle figure o dei movimenti. E' proprio questa deformazione grottesca che, mentre fa della breve scena un mirabile pezzo di bravura, stona nel contesto in cui il grottesco nasce in genere dall'ambiente in cui Cabiria viene a trovarsi o da certe proiezioni mitiche che essa ne fa, ma non - altro­ve e nell'insieme - dalla sua timidezza o dai suoi brevi slanci di coraggio ( che del resto anche nell'inquadratura immediatamente precedente erano visti con bonaria simpatia).

Con l'improvvisa impennata di Cabiria che si vanta della sua casa (di cui ho già parlato) e poi con l'arrivo di Jes­sie il livello del film si innalza di nuovo sensibilmente, fino alla conclusione dell'episodio.

Finalmente per quest'ultima parte posso rinviare alle pagine (171 – 175) che ad essa dedica B. Rondi, e che sono fra le poche sue dense di osservazioni esatte e quasi pri­ve di errori: sull'arrivo di Jessie, vista solo attraverso il vetro opaco della porta, come un'ombra, e poi attraverso il "ritaglio favoloso dato dalla serratura", sulla posizione di Cabiria all'alba, "da favoloso (!) pupazzo, lasciato cadere", sul carrello in allontanamento su Jessie addormentata, "struggente, quasi una soggettiva di Cabiria", che "mette distanza tra lei e la bella donna dolcemente addor­mentata, che Cabiria,- ora, vede come in sogno"; ecc.

 

Anche l'episodio successivo, del pellegrinaggio al Santuario della Madonna del Divino Amore, è molto celebre, per la sua novità (assai più vicino stilisticamente al successivo falso miracolo de La dolce vita che non alla precedente processione de La strada) e nello stesso tempo per una certa facilità di lettura; è condotto con maggior sicurezza, senza quei cedimenti che rallentano l'episodio precedente. Solo il raccordo a questo mi pare un po' forzato, da un punto di vista strettamente narrativo; ma anche questo rilievo è trascurabile, in un film che non segue una preci­sa linea narrativa, bensì osserva, con notevole precisione psicologica e coerenza stilistica, l'evoluzione di Cabiria attraverso fatti significativi di cui importa più la suc­cessione esatta che non i precisi collegamenti narrativi.

Si è già detto della netta analogia figurativa, ma anche in parte tematica, con il contemporaneo episodio del Settimo Sigillo. Ben diversa ne è però la funzione narrativa, che qui rappresenta una nuova illusione per la protagonista, e perciò si vela a momenti di un soffusa malinconia, come nella prima processione notturna vista da Cabiria nella usuale proiezione mitica, lontanante ed insieme affascinante (da cui è presto richiamata alla sua triste realtà dall'invito del sopraggiunto camionista toscano: "o bas­setta, che vieni a faro una passeggiata?" dove anche il pretto accento dialettale costituisce un preciso aggancio ad una certa realtà sociale, commentata dal mesto abbandono di Cabiria, rimasta sola in mezzo alla strada mentre la processione svanisce in lontananza). Un'analoga atmo­sfera ritroviamo a conclusione dell'episodio, secondo una esatta simmetria stilistica che in Fellini non è mai accademia, bensì sempre precisa esigenza artistica, a porre un certo ordine nell'apparentemente sfrenata libertà del­le immagini: Cabiria, ormai delusa, si ritrova abbattuta, nuovamente sola sullo sfondo di campi cosparsi di cartaccia abbandonata dopo il precedente delirio e baldoria collettiva ed appoggiata alla nuda fiancata di un pullman, mentre un'altra piccola processione si allontana cantando sommessamente: anche quella ambiguamente allusiva a spe­ranze di autenticità od a miti alienanti, come già questa; mentre Cabiria se ne sente nuovamente abbandonata, a distanza infinita, con in più la nuova delusione subita e però ancora con una vaga irrazionale e non confessata apertura di speranze.

Più spesso, anche qui, l'immagine coglie, in accostamenti polemici, la forza alienante della processione religiosa ridotta ad assurde manifestazioni isteriche individuali e collettive oppure a freddi rituali pagani impostati su formule magiche, alternati crudamente alle illusioni - anche esse mistificate, ma umanamente partecipate - di Cabi­ria. Speculazioni di chi vende e soprattutto di chi compra e crede, spendendo denaro, di acquistare neppur grazie spirituali ma miracolosi "compensi" materiali; grandiosa organizzazione della superstizione (quei primi piani de­gli altoparlanti, sottolineati già nell'inquadratura ini­ziale e ripresi poi sul vasto sfondo della processione); esaltazione individuale alimentata e confortata dall'es­ser parte di una più vasta esaltazione collettiva - ed il gusto curioso, ora ironico, ora più decisamente deforman­te, dell'osservazione del regista - ; rituali esasperati in una precisione di ragioniere (le parole dell'atto di dolore; lo zoppo che deve giungere all'altare, e che già prima chiedeva cosa di deve fare); il tuonare ipocrita del prete, con voce e parole chiaramente false, anche se non importa quanto inconsapevolmente in buona fede; il continuo emergere di singole storie e drammi che son pur sempre materiali, e fra questi le folli speranze, i tur­bamenti, le incertezze di Cabiria o di Wanda; infine il riemergere violento degli interessi più mondani e più spensierati, in un totale oblio della precedente esalta­zione, ad annullare ogni preoccupazione ed ogni delusio­ne riconducendo tutto nei termini di una spensierata e un po' cinica scampagnata domenicale (sottolineata da un preciso, anche se non pesante, accostamento fra i due momenti della vicenda dello zoppo, caduto a terra per il mancato miracolo e ritrovato, sdraiato per terra, in una posizione simile, ma ora spensieratamente alle prese con un panino imbottito; fra le due immagini, qualche C.L.L. sulla gente che, ora, danza allegramente nei prati).

Tutto ciò compare anche nel Settimo Sigillo (compreso il totale oblio conclusivo, qui spostato nella taverna); ma proprio dalle spiccate analogie emerge qualche differenza sostanziale fra i due registi: il nostro più attento alle relazioni con le mistificazioni della protagonista, più polemico nei confronti delle alienazioni che non degli uomini (individui) che ne sono vittima, e complessivamente più ottimista (la musica, quasi sempre fortissima, sotto­linea indubbiamente, come nel Settimo Sigillo, l'alienazione generale, ma assume anche quella funzione serenamente che più tardi sarà - con migliore resa cinematografica - del colore e della composizione dell'immagine); quello più sensibile alle mistificazioni collettive ed alla ricostru­zione fedele (e perciò meno polemica) di un ambiente storico, e più teso, nelle reazioni individuali, alla curiosi­tà intellettuale ed alle valutazioni morali ed esistenzia­li: secondo prospettive apparentemente più profonde, e che perciò possono maggiormente soddisfare una certa critica impegnata, ma in realtà più consapevolmente astratte e che per tale consapevolezza tendono a ridurre il tutto ad un puro gioco virtuosistico da mago dello schermo (co­me Bergman ama definirsi).

Ai pregi strutturali e compo­sitivi si intrecciano essenzialmente quelli narrativi, spesso ingiustamente trascurati: la linea evolutiva della nuova illusione di Cabiria è seguita con delicatezza an­che nelle vaste aperture descrittive che non la riguardano direttamente, dà a queste la loro giustificazione strut­turale e ne arricchisce la sapienza compositiva costituendo il filo melodico attorno al quale si sviluppa (acquistan­done quell'ordine che apparentemente gli manca) tutta la complessa orchestrazione, mentre questa - come appunto accade nei concerti per solista ed orchestra, anche nei mo­menti in cui è l'orchestra a prevalere - riprende, appro­fondisce o sottolinea, spesso per contrasto, il sicuro svolgersi della linea melodica: dalla sommessa introdu­zione del tema, proposto a Cabiria dal dialogo fra le compagne, che decidono di recarsi al Santuario per chie­der miracoli, sì, ma senza un totale abbandono alla spe­ranza, fino alla spensierata allegria finale che esaspe­ra e insieme sottolinea espressivamente l'amara delu­sione di Cabiria; in particolare Wandaè, come sempre, vicina a Cabiria, stimolandone o frenandone le reazioni: prima confessando per sé il desiderio che è tanto vivo in Cabiria (e che era alla base dei loro comuni piani lun­gamente meditati; ma una soluzione miracolosa potrebbe semplificarli), la aiuta a riconoscerlo e ad appassionar­visi; poi, per una sorta di pudore misto a sfiducia, rinnegherà le proprie speranze proprio quando Cabiria le ha fatte proprie con tutto il suo essere; infine cercherà invano di aiutarla a superare la delusione.

E' ancora la delusione che spinge Cabiria a vagare da sola, fino a sera, e infine a entrare nel teatrino, a spettacolo già iniziato, in cerca di una distrazione. Questa volta il collegamento narrativo è più naturale e la trovata dell'ipnotizzatore, oltre a dare occasione ad un episo­dio riuscitissimo e stilisticamen­te e tematicamente essenziale, giustifica narrativamente il ricadere di Cabiria in nuove e più gravi illusioni, nonostante quella prudenza che le esperienze precedenti dovrebbero pur averle insegnato. Ancora una volta Cabiria parte senza illusioni, decisa solo a divertirsi; consapevole di trovarsi davanti ad un gioco ("son tutti trucchi") che vuole accettare come tale, solo di fronte all'insistenza dell'ipnotizzatore, finirà per cedere e baldanzosamen­te salirà sul palco. Qui le capacità ipnotiche del mago - terribile ed affascinante creatore di illusioni - danno vita ad uno spettacolo vivace, movimentato, descritto da Fellini con una bravura che sfiora il virtuosismo ma che trova la sua necessità artistica come preparazione ed esaltazione, per contrasto, della successiva scena di Cabiria: alcuni giovani vengono fatti sedere su una panca e convinti di essere in barca si applicano ai remi, godendosi per un attimo il sole ed il mare calmo, dolce­mente illustrato dalla voce suadente dall'ipnotizzatore; ma presto la voce fa sorgere un forte vento, si fa concitata, drammatica, ed il ritmo di montaggio, sempre più rapido, ne accompagna vivacemente la tensione, mentre anche le singole immagini evolvono naturalmente in una composizione tesa, assai contrastata nelle linee e nelle luci; i giovani si agitano e si disperano, in una varietà di reazioni emotive che va dal buttarsi disperatamente a mare al resistere con sangue freddo prendendo in mano il timone per salvare la barca.

Quando il mago rompe l'incantesimo, Cabiria, sconcertata, timorosa, sta per andar­sene: non ha nessuna intenzione di lasciarsi trascinare in nuove illusioni e dichiara (ancora una volta con or­goglio borghese), alle domande del mago, di essere sod­disfatta della propria posizione economica ("non mi man­ca niente (…) la casa dove abito è mia!"; ma intanto mente sul luogo dove abita, nel solito desiderio di elevazione, per poi smentirsi subito in una prima breve ipno­si che suscita l'ilarità del pubblico) e di non avere esi­genze sentimentali ("e perché mi dovrei sposare? e che, son scema?"; ma subito dopo prende interesse alle paro­le del mago che le descrive e le propone Oscar).

Il breve dialogo riporta l'atmosfera alla realtà del palcoscenico e stilisticamente prepara il passaggio dal mo­vimentato ritmo della precedente illusione all'atmosfera sospesa e sognante della successiva. Il passaggio al so­gno è efficacissimo nella sua imprecisione, dopo che la breve ipnosi che ha fatto confessare a Cabiria il luogo in cui abita ci ha preparati: Cabiria non sembra ancora in ipnosi quando domanda, col suo tono di sempre: "Ma che sarà sto Oscar?"; non è ancora ipnosi, ma il suo interesse si è già risvegliato, perché ha toccato la sua più segreta aspirazione. Subito dopo, Cabiria è in piena ipnosi; ma questa (effetto della finissima introduzione narrativa e psicologica e d'atmosfera, già prima a momen­ti sognante) sembra ora nascere più da un segreto bisogno di Cabiria che non da un preciso intervento del mago. Intanto, il breve dialogo introduttivo servirà, in modo inavvertito per l'estrema naturalezza con cui è presentato, a motivare il nuovo atroce inganno di cui Cabiria sa­rà vittima: lo sue ingenue vanterie di ricchezza suscita­no nell'abile e senza scrupoli "ragionier D'Onofrio" il desiderio di derubarla con l'inganno.

Tutto il sogno di Cabiria è osservato con tenerezza, in una luce soffusa, dapprima tenue, poi più intensa, ma sempre irreale; men­tre la macchina indugia in poche lunghe inquadrature, poco variate fra loro, come ad accompagnare con delicatezza, per non rompere l'incanto, i dolci movimenti di Cabiria; anche la voce del mago culla uniformemente il sogno, in un morbido cantilenare che appena appena ricorda che tutto ciò è illusione - ed il ricordo non suona come ironia ma solo sottolinea quella vena malinconica che è già nel­la timida ritrosia di Cabiria e poi nel suo sempre più fi­ducioso domandare se "allora è vero? Mi vuole bene? Non cerca d'ingannarmi? Mi vuole veramente bene?".

Come la denuncia dell'illusione è appena suggerita e af­fidata soprattutto, per lo spettatore, al chiaro contesto narrativo, così anche le notazioni ambientali, spesso co­sì stridenti in Fellini, qui restano nello sfondo: ci so­no, e l'occhio le coglie inevitabil

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