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Magnifica presenza

Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film

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La recensione su Magnifica presenza

di scapigliato
9 stelle

Molto Almodóvar, il film. Molto Verdone, l’attore protagonista. Magnifica presenza è un film completo, pieno di tantissime cose, un’opera-mondo, un manifesto, un testamento, una confessione, persino un trattato potrebbe essere, un saggio sulla recitazione, il cinema, la vita e la morte. Denso, palpabile, comico, tragico, tragicomico, grottesco, un pizzico di horror riuscitissimo. Commedia brillante, con affondi sociali – lo scantinato jungla con i trans a lavorare in nero – civili e quell’ambiziosa dialettica finzione/realtà che già prima di Don Calderón de la Barca tiene svegli di notte tutti i più grandi attori della grande arte della rappresentazione. Inutile il tentativo di passare in rassegna tutte le tematiche, tutti i motivi e i topoi che il regista usa per il suo grande affresco: la casa infestata, il gay, i fantasmi, il cinema, il teatro, il muto, la guerra, il caso spionistico, il giallo, il cibo, i sogni, finzione/realtà, la medicina, e quant’altro. Molti film che vogliono dire di tutto e presentarsi come opera che racchiude la vita e la morte e tutto quello che si trova in mezzo, spesso non vincono la sfida, crollano, implodono, o non sanno dire davvero tutto o lo dicono male, puerilmente. Ferzan Ozpetek sceglie la via della punta dei piedi. Silenzioso, come i suoi fantasmi, il regista riesce a trattare tutto il campionario immaginario che gli passava per la testa senza sbavare, senza fare passi falsi. Il tono leggero con cui passa ago e filo tra personaggi, situazioni e loro immagini, non perde forza con lo sviluppo narrativo e permette ad ogni elemento della storia di essere fondamentale, sufficiente e necessario. I punti di forza del film sono molteplici. Uno su tutti, Elio Germano, la magnifica presenza del titolo e dell’intero cinema italiano – senza nulla togliere ai Favino e ai Bentivoglio che restano tra i più grandi attori, drammatici e versatili che possiamo aggiungere ai “mostri” sacri della nostra tradizione – si riconferma campione di versatilità, eroe del gesto attorico, erede solo di se stesso, anche se l’ascendenza verdoniana-sordiana è inconsapevolmente dentro di lui, come credo in ognuno di noi. Siamo quello che guardiamo, e la tradizione italiana porta in sé i geni della recitazione barocca, del gesto, dell’istrione misurato che comunica con il proprio fisico. Croce e delizia di una scuola recitativa che a tratti alterni esalta il mondo o lo rende indifferente. Elio Germano è oggi ciò che di più prezioso abbiamo. Non solo attore, ma uomo. Qui anche in declinazione omosessuale, per riconfermare il piacere dell’arte e della finzione attraverso un modello di uomo maschio, ma lontano anni luce dallo stereotipo machista di cultura fascista. Un uomo romantico fuori tempo massimo che si trova a suo agio solo nelle romanticherie d’antan. Il suo gruppo sociale sono fantasmi della seconda guerra mondiale, gli spettri tedeschi – uno ancora oggi molto in voga al soglio pontificio, un link sottile che non lascia spazio a fraintendimenti – non di certo i passanti sclerati, la fauna metropolitana, le segretarie gravide, anche se poi è proprio tra loro che torna a vivere, mutato, cambiato, con maggiore consapevolezza di se stesso. Aspetto interessante del film è proporre un protagonista gay senza fare un film a tematica LGBT. La normalizzazione del personaggio omosessuale passa sia attraverso le proprie pulsioni sessuali, cadendo inevitabilmente nella dura realtà, sia attraverso la vita quotidiana, tale e quale a quella etero. Una finezza di sceneggiatura che non per questo tiene lontana la voce del popolo LGBT. Infatti non solo attraversano la vita del protagonista transessuali, marchette o fantasmi gay castrati nella loro ingessatura, ma fanno capolino anche finti etero con tanto di fidanzata, che in realtà covano tensioni almeno omoerotiche, oltre a chi fa della vita omosessuale un semplice porto di mare – come il regista che butta in faccia a Germano la triste realtà del sottobosco gayo. L’elemento omosessuale è comunque normalizzato. Non ci sono macchiette o colpi bassi, stereotipi o tragedie annunciate. La normalità è l’arma con cui il regista, attraverso il mezzo attorico Germano, propone una visione della vita che come ha un piede in una scarpa, quella della realtà del quotidiano, ne ha anche uno in un’altra, la scarpa della finzione, della proiezione onirica, dell’insognazione e dell’immaginificazione. Cosa sarebbe la vita senza i nostri fantasmi? Ozpetek se lo chiede e risponde con un film barocco, fatto di specchi e realtà sensibili diverse, dove l’immenso Elio Germano utilizza i segni e le pose dell’insicurezza, della femminilità silenziosa di ogni uomo, per decodificare il pandemonio interiore che vive, rappresentato esteriormente da “questi” nostri fantasmi. Anche se la lettura è molto facile, e il film ben si presta a letture più profondo e varie, è indubbio il gioco che il regista fa degli elementi di finzione in rapporto alla nostra percezione di realtà. Chiude il cerchio l’azzeccatissima scelta di Anna Proclemer che fa rivivere sullo schermo, in un film di fantasmi e di scheletri nell’armadio, la senilità della bellezza, della finzione, dell’effimero. Un personaggio bellissimo che rende giustizia – come alla Calamai di Profondo Rosso – alla carriera di un’attrice che ci collega direttamente ad un’epoca e a una cultura lontani. Contraltare della modernità, anche il personaggio della Proclemer è un fantasma. Lo era ai tempi della voluttuosità teatrale, lo è oggi nelle periferie romane dove nessuno più la conosce. In questa cornice spettrale, più vicina a De Filippo che a Ibsen o agli horror giapponesi, Ozpetek e Germano, con tutto il restante cast, baroccheggiano dove compete loro, in territori esterni e interni, dove il sogno, la realtà, la finzione e la bizzarria si passano la palla della nostra vita, giocando a rimpiattino con la luce del sole.

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