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Argo

Regia di Ben Affleck vedi scheda film

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La recensione su Argo

di spopola
8 stelle

Argo fuck yourself!

Questa è la terza regia di Ben Affleck, e quella che ne conferma il talento in tale veste, per una volta coinvolto per altro a lavorare su una sceneggiatura non sua, come invece era accaduto nel passato, ma di altrettanto ottimo livello e di particolare efficacia narrativa, scritta da Chris Terrio (a partire da un articolo di Joshuah Bearman) che “ricostruisce” anche emozionalmente un fatto realmente accaduto e tenuto necessariamente nascosto per molto tempo (forse per non turbare le relazioni internazionali) reso disponibile da Clinton solo nel 1997 e diventato dunque di dominio pubblico in tempi abbastanza recenti grazie proprio a quell’articolo di un giornale a cui si ispira appunto lo sceneggiatore, visto che i fatti risalgono invece ai tempi della rivoluzione Khomeiniana (e quindi al 1979) conseguente alla defenestrazione della sanguinaria e discutibilissima figura dello Scià Mohammad Reza Pahlavi prontamente rifugiatosi negli “accoglienti” Stati Uniti d’America per sfuggire alla pena di morte a cui era stato condannato nel suo paese. Prima del momento in cui quei documenti segreti che custodivano l’effettiva verità degli accadimenti fossero resi finalmente accessibili con la eliminazione del precedente veto motivato dal segreto di Stato, si riteneva infatti che l’azione di espatrio grazie a una fasulla “copertura” di un gruppo di funzionari sfuggiti alla retata del 4 di novembre e febbrilmente ricercati come spie dal nuovo regime iraniano che  intendeva catturarli per giustiziarli, fosse stata opera esclusiva del comunque meritevole ambasciatore canadese Ken Taylor e di sua moglie (il cui ruolo rimane di assoluta rilevanza) che prima li aveva ospitati per alcuni mesi clandestinamente e con grossi rischi nella sua ambasciata, per poi riportarli finalmente a casa facendoli uscire dal paese in una maniera rimasta sempre molto misteriosa e mai del tutto chiarita che - come si potrà osservare adesso - era stata invece di tutt’altra natura e portata.

Potremmo dunque considerare questa pellicola l’opera della “maturità” visto come il regista riesce ad orchestrare e dominare complessivamente una materia anche scottante e molto complessa che mischia la ricostruzione “virtuale” della storia, con in­serti documentali ripresi in diretta dalla tragica realtà di quei giorni insanguinati, e a cui potremmo semmai imputare qualche (perdonabilissima) sbavatura nei troppi finalini “buonisti” appiccicati dopo la conclusione effettiva dell’avventura, che diventano inevitabilmente celebrativi di un americanismo di maniera e che potevano essere benissimo evitati (fra tutti, il mieloso quadretto familiare dell’eroe di turno che fa ritorno alla magione, prima con la moglie che attende dietro la finestra e poi con l’edificante abbraccio consolatorio sullo sfondo della immancabile bandiera a stelle e strisce, trionfalmente sventolante nello spazio antistante l’edificio).

L’avvio è folgorante: si parte dal bianco e nero documentale delle immagini per narrare gli antefatti di una nazione travagliata come l’Iran/Persia, inevitabile premessa per definire meglio il clima anche furioso di quegli anni che forse altrimenti non sarebbe risultato sufficientemente chiaro a tutti, poiché viviamo in tempi in cui la memoria di un passato storico nemmeno tanto lontano come quello, è sempre più labile e “contaminata”, inframmezzato comunque anche da efficaci “ricostruzioni”, che come ci sarà dato di verificare nei bellissimi titoli di coda, ricompongono con attendibile fedeltà, come sanno così bene fare gli americani, anche la parte iconografica del racconto con il rispetto assoluto dei dettagli.

La vicenda viene infatti riprodotta nel suo insieme, con il rispetto filologico di una messa in scena davvero sorprendente e molto veritiera che fa di Argo un film certamente d’azione calato nella sua storia e nel suo tempo, ma anche foriero di forti emozioni e di altrettante gustosissime caratterizzazioni che alleggeriscono ogni tanto il tono, e che danno un sapore di singolare novità all’insieme, proprio per la maniera  con cui Affleck è  riuscito a inserirle dentro il tessuto molto teso del racconto, senza per questo sminuirne la presa emotiva, che diventa di eccezionale rigore nel serrato, coinvolgentissimo montaggio alternato del pre-finale, quando lo spettatore che pure conosce il lieto fine, si trova a seguire con intensa e sofferta trepidazione la fase conclusiva dell’azione “temendo” spesso il peggio (e questo credo che non sia un merito di poco conto che va ascritto totalmente alla secchezza della tecnica espositiva scelta ed utilizzata dal regista che fa diventare parossistica una modalità di “rapporti” fra ricercati e inseguitori, comunque presente in tutte le sequenze del film). Il merito va comunque attribuito anche all’imprescindibile apporto di  William Goldenberg, che si conferma eccelso e puntualissimo esecutore di un montaggio per più di un verso strabiliante, che rispetta fedelmente ed esalta le direttive di regia che rendono frenetici i frammenti incrociati che si alternano sullo schermo con un ritmo sempre più esacerbato.

La storia ha dell’incredibile: se non fosse documentata nei fatti, parrebbe quasi un’impresa fantascientifica, esattamente come fantascientifico era il soggetto del finto film (sorretto da una produzione altrettanto fittizia edificata ad arte per rendere verosimile il progetto in esecuzione) da girare in parte proprio in Iran, e utilizzato per rendere possibile con la sua ingegnosa e pericolosissima costruzione finalizzata ad aggirare i minuziosi controlli e fare fessi i “controllori” dell’aeroporto, l’epilogo felice della fuga pur fra molte traversie e qualche incidente di percorso. Un’azione dunque davvero molto complicata e complessa, al limite dell’assurdo si potrebbe dire, guidata da un agente segreto (Tony Mendez)  specializzato in  azioni rischiose ed impossibili come questa, che ebbe la geniale idea di fingersi il produttore di un inesistente b-movie di fantascienza (Argo appunto) le cui riprese dovevano avvenire “virtualmente”  proprio in Iran, per il quale al fine di rendere la cosa verosimile al mondo intero, la CIA non esitò a comprare su Variety una corposa pagina pubblicitaria corredata da articoli, foto ed indiscrezioni, con l’unico obiettivo di annunciare l’inizio delle riprese e dei provini, ingaggiando per altro come referenti “stanziali” a garanzia assoluta della veridicità della cosa, dei veri professionisti hollywoodiani come

John Chambers (John Goodman) prelevato direttamente dai set della serie del Pianeta delle scimmie che lo aveva reso famoso (film che ha un ruolo importante anche nell’ispirare a  Mendez l’escamotage un po’ strampalato messo in piedi per organizzare quella fuga in apparenza quasi impossibile) e Lester Siegel (Alan Arkin), coinvolgendoli profondamente nell’operazione e facendo loro giurare di mantenere il segreto.

Un approccio quindi meticoloso e convincente per dare vita ad un finto film che in un certo senso, proprio nel mantenere inalterato quel titolo nella pellicola ora proposta sullo schermo, vede oggi la luce anche se indirettamente come in una operazione metacinematografica, resa curiosamente interessante dal fatto che quello preso in prestito e adesso risollevato dall’oblio, era uno script veramente esistente all’epoca dei fatti narrati, che è poi è rimasto nel cassetto, anch’esso “inevaso”  e misconosciuto, visto che nessuno lo ha poi girato veramente.

Argo è dunque tutt’altro che un film facile, e men che meno banale (può rimandare per più di una ragione a Fuga di mezzanotte di Alan Parker) che Affleck illustra con stile e precisione per farne un’opera comunque inedita dallo spirito fortemente combattivo, fresca e moderna che si appoggia su una atmosfera credibilmente realistica decisamente più vicina al cinema liberal di  Pakula o di  Pollock (e non a caso fra i produttori si ritrova il nome di George Clooney, molto sensibile e attento all’esperienza di quelle pellicole fortemente impegnate così in voga negli anni ‘70), piuttosto che  a certe opere più moderne costruite intorno a intrighi spionistici basati soprattutto sull’azione, ma scarse di psicologia, comprese quelli della serie bondiana adesso in fase di rinnovamento creativo. La realistica, puntualissima, ricostruzione dell’assalto e della presa dell’ambasciata americana, la distruzione dei documenti, le sofferenze (e i dubbi) dei singoli, la prigionia nella pur lussuosa residenza dell’ambasciatore, le spie, i pericoli, il tentativo di ricostruire le immagini dei fuggitivi con la ricomposizione meticolosa dei frammenti cartacei lasciati sul terreno che permetterebbe al nuovo potere iraniano di ricomporre le facce dei latitanti, la fuga contro il tempo e la ragione,  tutti gli incidenti e i contrattempi che si verificano nel corso di quelle interminabili giornate, rendono infatti questa pellicola con le sue due ore di durata piene di adrenalina frutto di una di una suspense abilmente ricreata e sostenuta  assolutamente capace di tenere avvinto lo spettatore senza lasciargli un attimo di pausa, un modello davvero interessante (persino “riproducibile” se vogliamo) per reinventare un cinema indubbiamente d’autore come questo,  ma che sia anche efficacemente popolare, capace cioè di toccare dei grandi temi politici e soprattutto umani, utilizzando il coinvolgimento di un racconto serrato che si traduce in una modalità di rappresentazione rapida e spettacolare, e dunque di facile comprensione da parte di tutti (cosa che non accadeva invece per esempio per il farraginoso impianto un po’ cervellotico del comunque efficace e interessante Syriana di Stephen Gaghan tutt’altro che di semplice accesso per la sua costruzione ad incastri davvero un po’ troppo elaborata).

Si potrebbe definire il film anche come una efficace “parabola” di Cinema sul Cinema,  proprio per le interconnessioni  narrative che vi si ritrovano dentro. A mio avviso, si tratta però soprattutto della celebrazione di un’idea molto suggestiva e concreta, quella di come i film, nel vero senso della parola, possono davvero riuscire a salvare la vita in virtù della loro capacità di far sognare tutti e ad ogni latitudine, comprese quelle guardie iraniane della rivoluzione così aggressive, ma che rimangono incantate davanti ai bozzetti dell’astronave e dei costumi dello storyboard di quel film “che non si farà” in una sequenza memorabile dove l’amore per il cinema traspare proprio dalla bramosia incantata degli sguardi e si riflette magnificamente  in quelli dell’addetto iraniano alla cultura che accompagna la finta troupe per le riprese nel bazar.

Ben Affleck, dimagrito e volutamente dimesso come attore, è invece eccellente dinanzi alla macchina da presa nella veste di regista, ruolo che lo invitiamo a coltivare con assoluta convinzione e continuità privilegiandolo su ogni altra cosa. La sua maturazione è indiscutibile, come pure  il perfetto controllo degli elementi che gli consente di rinnovarsi anche nel linguaggio rispetto a ciò che aveva realizzato prima, trovando questa volta non solo la conferma di una notevole vivacità espositiva già presente nelle sue precedenti fatiche, ma sfoderando anche e soprattutto una grandissima e inedita dose di ironia (le straordinarie figure dei professionisti hollywoodiani coinvolti e che non abbandonano l’impresa nemmeno quando l’organizzazione generale viene sconfessata dai vertici del pentagono rischiando così di determinare una tragedia, sono resi magistralmente dalle eccellenti prove di due veterani di classe come John Goodman e Alan Arkin) nonostante la drammaticità di alcuni  momenti e la tensione molto palpabile e quasi insostenibile di quel pre-finale davvero costruito ad arte.

Si può quindi essere pienamente d’accordo con Marco Spagnoli quando scrive che Argo riunisce in sé molti generi e sembra essere l’ulteriore prova di come la realtà possa risultare quasi sempre più strana ed eccitante della finzione

Come al solito, efficace anche la colonna sonora di un musicista di punta come Alexandre Desplat, che sorprende ogni volta di più per la felice, inusuale capacità che mostra nel saper adeguare il suo sempre riconoscibilissimo stile alle esigenze delle varie produzioni a cui è chiamato a collaborare, restando sempre efficace personale, autonomo e corrispondente.

Altrettanto “positiva” la resa delle immagini riprese dalla sapiente cinepresa di Rodrigo Prieto, responsabile della fotografia.

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