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The Twilight Saga: Breaking Dawn. Parte 2

Regia di Bill Condon vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Twilight Saga: Breaking Dawn. Parte 2

di Immorale
1 stelle

I was born to be a vampire

 

PROLOGO

 

 

“C’è un ragno sotto lo scolapiatti”, dissi tenendo A3 in braccio mentre si esercitava nello sport preferito del momento: il dimenarsi per poi lanciarsi su passi ormai spediti, un  volta guadagnato il pavimento, verso un’ipotetica fuga lanciata che finisce immancabilmente contro la porta di casa colpita dalle sue manine e dalle sue urla.

SBAM BOOM BRUUUM, il desiderio di fuga dei bambini intorno ai due anni ha un ché di malinconico per l’adulto ormai già intrappolato nel loop apparentemente infinito del ciclo vitale. E’ senza speranza, è senza legami e finisce presto. Non ha senso, se non per un cervello ancora in formazione. Forse è un istinto, eroico e folle allo stesso tempo. Ma

 

“c’è un ragno sotto lo scolapiatti”, dicevamo. “ah, si, è Geronimo”, rispose distrattamente Y. dal balcone. Geronimo ? Geronimo chi ? Il ragno. ……..hai dato un nome ad un ragno ?

 

“Abbiamo dato un nome ad un ragno”, si intromise A2 sempre pronta a calare sulle discussioni per poi prontamente rintanarsi nella sua stanza, dopo aver saccheggiato il frigorifero.

 

Avete dato un nome ad un ragno ? Già. Geronimo. Beh, perché cosa c’è di male ? E’ un ragno. Non dà fastidio a nessuno e fa fuori le zanzare. Lui non sarebbe così gentile con voi, hai mai letto “tre millimetri al giorno” di Richard Matheson ? No. Dovresti. Non sei sempre tu a dire che noi esseri umani, avendo il ruolo di animali superiori, dobbiamo comportarci come tali ? Mica sempre. Cosa ? Superiori. E poi, non cambiare discorso, ti ricordi cosa mi hai promesso stasera ?

 

Il tono distaccato, lo sguardo blando, il fare casuale. Nessun dubbio: era lei. Non una domanda qualsiasi ma LA DOMANDA. Quella più temuta nel rapporto di coppia, sia esso etero, omo, trans o alfanico. La cui errata risposta potrebbe portarti 7 minuti o giorni o mesi di guai, mugugni, recriminazioni e rappresaglie. Mollai lentamente A3 al suo destino e recitai mentalmente, in ordine d’importanza

 

anniversario, compleanni, figli, scadenze, veterinario, gatti, cane, iguana, tartarughe, lavori in giardino, riparazioni varie, libri, bollette, fare la spesa, cene vegane, suoceri, parenti, le cavallette, invasioni aliene, Berlusconi, Renzi, spending review, Grillo, e-mule, Agenzia delle Entrate, gomma a terra, lavanderia, coniglio, the Bridge, The Walking Dead

 

e risposi, quasi sicuro: no.

 

“Dobbiamo guardare la seconda parte di “The Twilight Saga - Breaking Dawn”

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"Je suis nèe pour etre un vampire

 

IL  PRESAGIO

 

 

Segni si erano presentati, ignoranti e obliati dalla mente vigile, in varie occasioni. Portati dalle sembianze algide di una esangue e allampanata professoressa di inglese che, come già accaduto un paio di volte (qui e qui), costrinse il vario circo umano dei suoi allievi (me compreso) alla visione di un film. In lingua inglese. Nientemeno che il capostipite della pentalogia. Il mortifero “Twilight” del 2008. Mentre guardingo cercavo di capire se la pelle dell’aguzzina luccicasse alla luce solare baluginante dalla finestra, avevo modo di “apprezzare” la pessima dizione smozzicata di quasi tutto il cast, un idioma incomprensibile senza sottotitoli (resa fonica di una battuta di Billy Burke/padre di Bella: CMTSGW, proferita come un’unica sillaba con movimenti labiali da masticatore di tabacco [soluzione: Come On, Let’s Go Home Now] – sic!) e della Stewart in particolare, fatta eccezione per l’ottima pronuncia inglese di Robert Pattison.

 

Una lacerazione visivo/sonora. Con effetti anche allucinatori. Infatti gli occhi della nostra persecutrice sembravano aumentare di volume, prendendo altresì una colorazione vermiglia, occupando gradualmente tutto lo spazio della sua sparuta e pallida faccina.

 

  

But, all bad things must came to an end (luckily enough). Risorsi dal desco dopo un’ora e mezza, alfine, ratto nel guadagnare l’uscio cercando di cogliere un accenno di canini dalla dentatura dell’amazzone, salutando: “S‘N !”. “What ?”, fece lei. “SEEEEE YOUUUU SOOOON !”, ripetei dal corridoio.        

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Sono nata per essere un vampiro

 

LA FINE

 

La drammaticità (!) degli eventi finali della prima parte, equivalente al pathos sprigionato da una puntata media di “Tempesta d’amore” o “Don Matteo”, viene idealmente ripresa dagli sferraglianti titoli di testa, con riprese veloci e goticheggianti (tendenti al rosso) degli ambienti luogo dell’azione (con ridondante effetto “sfondo del desktop”): le già visitate amene montagne innevate nei dintorni della cittadina di Forks, stato di Washington. Il tutto mentre cerco di bilanciare lo Yin e lo Yang della mia negatività, ricacciandola all’interno del Chi, attento al manifestarsi di indizi esterni della sua presenza (che sarebbe prontamente rimbeccata da Y.), cristallizzando il corpo assiso sul divano in una posa di plastica rilassatezza e immobilità assoluta, con lo sguardo asettico rivolto alle immagini.

 

Di tale agognata tragicità non v’è (ovviamente) traccia nell’avvio, dove troviamo la nostra Bella/Kristen Stewart, nella sua veste (finalmente) vampiresca, alle prese con l’accettazione delle sue nuove capacità, agghindata a festa con un vestito che lascia trasparire le sue secchezze ossee in tutto il loro biancore, mentre strapazza di robuste coccole il suo amato tra una caccia al puma tra le montagne e una corsa tra gli alberi.

Tali momenti, rappresentati digitalmente in maniera altamente ridicola, cullavano la mia mente di afflati scult, finché, al 20°, non accadde l’irreparabile.

 

Bella Swan si morse le labbra.

 

Ed al 21°, con un uno-due devastante:

 

Bella Swan si imbronciò.

 

Ed al 23°, come un Van Basten in gonnella:

 

La mascella di Bella Swan cascò mostrando gli incisivi.

 

 

Perso nella vaga forma a parallelepipedo irregolare di questi ultimi, presi ad analizzare l’attrice. Oggettivamente non si può non considerarla una bella ragazza (forse un po’ magrina), il mio problema è che ormai lei non interpreta Bella. Per me lo è. Come Harrison Ford sarà sempre Indiana Jones. Come Peter Falk sarà sempre il Tenente Colombo. Punto. Le sue mossette facciali mi procureranno quindi ad libitum lo stesso effetto anestetizzante di una robusta dose di bromuro, del festival di Sanremo, di un panino con salamella e peperoni ingurgitato alle 3 di mattina o di una partita a scala 40.

 

Da questo punto in poi il film infila una serie di banalità quasi inenarrabili, dalla nostra eroina che improvvisamente si ricorda di aver partorito una bambina dal nome impossibile (Renesmee [sic]) che, nel frattempo, è già in età scolare (la cui caratterizzazione digitale del volto sfiora l’inquietudine esistenziale) alle varie prove di forza della stessa (se possibile più antipatica da “bloodsucker” di quanto lo fosse da umana) fino ad una scena d’amore finalmente alla pari che si auspicherebbe focosa e invece di una patinatura sterile da fotoromanzo, ottundente quanto una fila alle poste.

 

Al 43° Bella pronunciò l’immortale battuta: “sono nata per essere un vampiro”.

 

Ed io, Indeciso su quale parte del corpo ed in quale idioma farmi tatuare o marchiare a fuoco l’essenziale motto, presi a considerare invece le doti professionali della sceneggiatrice, Melissa Rosenberg. E’ come se, consapevole di star scrivendo (o dirigendo, nel caso di Bill Condon) la sceneggiatura di un obbrobrio  (il riadattamento del libro della Meyer) avesse detto: “se deve essere una schifezza, farò in modo che sia una grande schifezza. Che rimanga nei libri del Mereghetti per sempre”. O così mi piace pensare considerando la ripetitività dei ¾ del film, tutti spesi nella vana speranza di creare un climax di tensione per l’attesa (da quattro film e mezzo) resa dei conti finale con il Clan dei Volturi,  rendendo edotti i poveri spettatori sulle procedure del Codice Penale Vampiresco, il quale richiede la ricerca di testimoni per il globo per perorare la causa dei Cullen e salvare Reneequalcosa dall’abbattimento dovuto alla sua supposta natura incontrollabile. Per un redde rationem, che si aspettava (sperava) crudele, che invece non ci sarà.

 

Il tutto si chiude, finalmente, con i due amanti in un campo di fiori rimembranti li tempi andati, giurandosi (minacciandosi) amore eterno.

 

Che mi auguro per lui, meta-cinematograficamente, che possa durare l’eternità meno un quarto.   

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