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Kotoko

Regia di Shinya Tsukamoto vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Kotoko

di Ugogigio
8 stelle

Kotoko si apre sull’immagine in controluce di una graziosa bambina che balla dimenandosi divertita sulle note giocose di uno xilofono, in riva al mare. Stacco improvviso, la macchina da presa è colta da convulsioni frenetiche e sentiamo le urla angosciate e lancinanti di una donna fuori campo. La bambina non c’è più.

Bastano i pochi minuti di questo preambolo per inquadrare il dodicesimo lungometraggio di Shinya Tsukamoto dal punto di vista tematico e stilistico. Kotoko è infatti un film che riesce a coniugare nelle proprie immagini le più opposte polarità emotive: tenerezza e disperazione, gioia e dolore, dolcezza e orrore, adeguando perfettamente lo stile alle esigenze espressive. Indagine e analisi clinica di un’anima lacerata e dilaniata da una profonda dicotomia interiore, Kotoko finisce con l’assumere la stessa natura bifida del suo soggetto e i bruschi passaggi di stile sono la conseguenza più evidente di questa doppiezza.

   

Abbiamo dunque da un lato sequenze distese e rilassate, splendide dissolvenze multiple che creano suggestive inquadrature in cui magicamente convivono nello stesso spazio più immagini differenti, lunghe inquadrature dalle tinte pastello o comunque un montaggio pulito, posato, e dall’altro improvvise esplosioni di schizofrenia registica ottenute attraverso i tremori incontrollabili e convulsi della macchina da presa, l’uso di zoomate repentine e prospettive sghembe, la distorsione assordante del sonoro e un montaggio sincopato in preda a tumultuosa concitazione, insomma tutte le cifre stilistiche che hanno da sempre caratterizzato il modo di fare cinema di Shinya Tsukamoto.

Eppure qui siamo distanti dalla nevrastenia allucinata e nichilista dello Tsukamoto storico, dagli incubi cyberpunk di matrice cronenberghiana di film cult come Tetsuo: le orrende mutazioni corporee che portavano l’uomo e la macchina, la carne e il metallo, a fondersi in aberrante simbiosi vengono meno, gli sperimentalismi geniali ma ancora acerbi lasciano spazio a immagini di levigata bellezza, ad un linguaggio pienamente maturo. Volendo fare un paragone di comodo con la filmografia di David Lynch, si potrebbe accostare il rapporto che passa tra Tetsuo e Kotoko a quello che intercorre tra Eraserhead e Mulholland Dr.

Non che il regista abbia addolcito con gli anni la sua consueta violenza, tutt’altro: Kotoko può vantare sequenze profondamente disturbanti, anche sul piano più puramente visivo, tra cui scene di tortura autoinflitta, volti gonfi grondanti di sangue e una serie di svariate tipologie di infanticidio, soprattutto l’esplosione in primissimo piano della testa di un neonato in stile Scanners. E non è poco...

   

Il fatto è che qui la violenza non è più semplicemente esteriorizzata in forme clamorosamente concrete e tangibili come poteva essere la trasformazione di un pene in trivella. Anche al netto delle sequenze grandguignolesche che pure non mancano, Kotoko risulta da questo punto di vista un film estremamente violento, ma si tratta di una violenza tutta introiettata internamente alla protagonista, che può manifestarsi nel semplice atto di cucinare, in uno sguardo piuttosto che in un modo di camminare o di posizionarsi (salvo poi emergere allo scoperto palesandosi come tale in repentini scoppi di isteria, da cui la doppiezza stilistica di cui si è detto), una violenza che si rivela in ultima analisi conseguenza di una condizione esistenziale.

Kotoko narra la storia di una disperazione, la banale e terribile disperazione del semplice esistere. L’omonima protagonista è preda di un’angosciosa insicurezza che coinvolge interamente il rapporto che ella ha con il mondo esterno, soffre di un’incapacità di discernimento e di orientamento che si traduce per lei nella totale assenza di solidi riferimenti cui appoggiarsi nel quotidiano sforzo di vivere.

Metaforicamente quest’inabilità esistenziale è resa mediante la trovata del disagio schizoide della visione doppia: Kotoko percepisce il mondo come sdoppiato in due e, ogniqualvolta le si presenta un estraneo, questi appare accompagnato da un doppione fittizio frutto della sua immaginazione, che tipicamente si mostra ostile nei suoi confronti, precipitandola nel dubbio e nello sgomento. Perciò Kotoko si taglia abitualmente, unico modo che le rimane per accertarsi di essere viva in un mondo disorientante che finisce col mettere in dubbio la sua stessa esistenza.

   

Le uniche pause di sollievo da questa costante sofferenza sono gli emozionanti intermezzi canori in cui, astraendosi dalla realtà e perdendosi in sogni di terre lontane, Kotoko (interpretata in maniera superba dalla cantante giapponese Cocco alla sua prima prova recitativa, praticamente mai tralasciata dall’obiettivo) si riconcilia illusoriamente col mondo, che torna per un breve lasso di tempo ad essere uno e singolo. Anche le visite alla famiglia sembrano coincidere con il recupero di una serenità ormai irrimediabilmente perduta e tutta la sofferenza sembra svanire all’improvviso davanti alla normalità delle piccole cose, ma basta poco perché la donna torni a sprofondare nei suoi deliri paranoici autodistruttivi.

La situazione sembra finalmente trovare un punto di svolta quando entra in scena il personaggio di uno scrittore (interpretato da Tsukamoto stesso, come suo solito) che s’innamora della fragilità di Kotoko e, vinte le sue iniziali resistenze, riesce a farsi ricambiare, con il proposito di salvarla. C’è dunque spazio anche per una toccante storia d’amore, di un amore intriso di pulsioni mortifere e violente, fatto di deliranti schermaglie e di torture domestiche (l’uomo vi si sottopone volontariamente per evitare che Kotoko le rivolga a sé stessa), ma per la prima volta la donna sembra veramente felice e il suo mondo ricomposto. Se non che all’improvviso l’uomo svanisce e capiamo che si è trattato solo o in parte di una delle solite allucinazioni che colpiscono Kotoko. Da qui all’amaro, stupendo finale sarà un crescendo di follia.

Bisogna a questo punto menzionare un elemento chiave finora taciuto: la protagonista è infatti madre. Ella ama suo figlio con tutto il cuore, eppure l'esperienza della maternità è descritta dal film come un fardello opprimente, se non angosciante, un peso che va ad aggravare ulteriormente le sue ansie esistenziali. Non riuscendo a badare neppure a sé stessa, Kotoko non sa come provvedere a un bambino di pochi mesi: vede pericoli ovunque, rimane impietrita dal dubbio quando il bambino si sdoppia ai suoi occhi, si sente una ben fragile difesa di fronte alla brutalità del mondo. Alla fine, per evitare che il mondo lo possa sopraffare, prenderà la paradossale decisione di soffocarlo nel sonno con le sue stesse mani, in una delle scene più terribili ed emotivamente devastanti che mi sia mai capitato di vedere.

   

Da quanto detto finora mi sembra chiara la distanza di questo film dall'algida glacialità e dalla morte del sentimento che costituiscono la cifra del cinema di Cronenberg. Piuttosto, siamo dalle parti di un cinema scosso da potenti tremiti emotivi, da violente manifestazioni di sofferenza interiore: i primi due esempi che mi saltano in mente sono il primo Kim Ki-duk (quello di The Isle, tanto per intenderci, la cui protagonista apriva bocca una sola volta per tutta la durata del film e solo per lanciare un grido di straziante dolore) e soprattutto Andrzej Zulawski (le dinamiche tra i due personaggi principali, pur diversamente motivate, la psicologia della protagonista, gli attacchi isterici mi hanno a tratti ricordato quelli di Possession).

Pur continuando a perseguire con coerenza un proprio preciso discorso d'autore e mantenendo inalterate molte delle sue caratteristiche formali, Shinya Tsukamoto sembra dunque aver maturato con Kotoko uno spostamento di interesse dalla carne alla mente e dal corpo all'anima, portando a compimento un processo già in germe in un'opera come A Snake of June, in cui le due tematiche venivano a trovarsi perfettamente bilanciate.

8.5

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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