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Romanzo di una strage

Regia di Marco Tullio Giordana vedi scheda film

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La recensione su Romanzo di una strage

di LorCio
6 stelle

Si può leggere l’ultimo film di Marco Tullio Giordana (ma, è bene affermarlo da subito, sarebbe meglio dire che il film appartiene a Stefano Rulli e Sandro Petraglia) in vari modi. Si può leggere come la cronaca di uno Stato allo sbando (già alla fine degli anni sessanta) o come la rievocazione di un periodo che ha segnato l’inizio della cosiddetta Notte della Repubblica. O si può leggere, come forse sarebbe opportuno, come un romanzo. Un romanzone, a dire il vero, in cui i protagonisti sono molteplici e si distinguono tra personaggi completi e figure sullo sfondo, e distribuiti su almeno tre livelli: lo Stato gli uomini dello Stato e gli uomini contro lo Stato. È proprio questo il momento in cui questi tre gruppi si confondono, in cui le carte vengono mischiate e la notte è veramente buia. Il momento è in questione è l’autunno caldo del 1969, che raggiunse il suo culmine con la bomba esplosa il 12 dicembre presso la Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano.

 

Come in un mosaico generazionale e nazionale, il romanzo della strage (il titolo proviene da Pasolini che, lasciatemelo dire a costo di essere tacciato di qualunque cosa, si sta eccessivamente sfruttando tra spettacoli teatrali, libri e film) è fatto di tanti tasselli, che a loro volta nascondono piste segrete, inganni, rimpianti, sangue. Sangue che scorre ovunque, come un fiume sotterraneo, che macchia le pareti dei palazzi e si dilata sull’asfalto delle strade, che scorre improvvisa ed inquietante sulla fronte del giudice Paolillo (un uomo dello Stato, appunto, che vuole indagare sullo Stato e su chi vi rema contro malgrado lo Stato). Di fronte ad un film del genere dobbiamo sempre tener conto che stiamo parlando di morti, perlopiù vittime innocenti che in quell’istante si trovavano in banca.

 

Davvero possiamo pensare che uomini dello Stato abbiano voluto la morte di vittime innocenti, si chiede l’ambiguo prefetto degli Affari Riservati in una proiezione onirica del commissario Calabresi, nella quale le verità vengono a galla per poi affogare di nuovo nel mare magnum dell’omertà e del depistaggio di Stato. Delle due l’una: o la malafede ci ha ormai invaso il cervello a furia di dietrologie o semplicemente pare strano se non allucinante che diciassette persone non abbiano mai avuto giustizia (e che le famiglie siano state costrette a pagare le spese processuali). Ora, il film pone il problema immediatamente: perché il caso non può essere risolto? Le risposte possono essere di tre tipi: quello demagogico non considera che in Italia tutto va a farsi fottere, quello cospiratore mette in mezzo i massimi sistemi e quello civile non se ne capacita.

 

Giordana, Rulli e Petraglia sono certamente del terzo tipo ed è palese che siamo di fronte ad un film civile, uno di quei film utili a raccontare ad un Paese distratto e smemorato cosa è successo nella nostra storia patria, che in un futuro sarà probabilmente utilizzato al pari di certi film di Francesco Rosi (nume tutelare involontario, mi verrebbe da pensare). E giusto per mettere le cose in chiaro, la materia è incandescente e scomoda per tutti: a destra per ragioni oserei dire evidenti (il terrorismo nero, il tentativo di golpe del principio Junio Valerio Borghese), a sinistra soprattutto per errori madornali (il manifesto dell’Espresso contro Calabresi è una delle pagine più imbarazzanti della sinistra italiana) e al centro per ignavia e mancanza di capacità (le colpe, i dubbi, gli sbagli e le paure della Democrazia Cristiana).

 

Fatte dunque queste premesse, va detto subito che è un film necessario sicuramente da un punto di vista civile, come già ho detto, e anche perché riempie un vuoto cinematografico (a mia memoria non ricordo un film sulla strage in questione), e pare naturale che ad occuparsi della faccenda siano Rulli e Petraglia, attualmente gli unici sceneggiatori in grado di affrontare la storia. Le perplessità subentrano quasi prontamente. Fondamentalmente il grande errore che commette il rischioso film è quello di essere ellittico quando potrebbe essere più didascalico e didascalico dove dovrebbe essere ellittico. Un esempio per tutti: il dialogo estremo e drammatico tra Aldo Moro e Giuseppe Saragat, in cui il primo presenta al secondo un’indagine personale e parallela compiuta sulla strage in cui viene indicata la destra come responsabile. Quand’è che il confronto tra i due (per altro ottimamente recitato da, rispettivamente, un sofferto Fabrizio Gifuni e un duro Omero Antonutti) convince, dopo tante parole sì fondate ma poco credibili? Quando i due accantonano i propri ruoli di ministro e capo dello Stato e diventano Aldo e Giuseppe l’uno di fronte all’altro, con diversi rapporti di forza e spogliati dell’ufficialità istituzionale.

 

È una spia che lascia ben intendere quale sia il cuore pulsante reale del film di Giordana: siamo al cospetto di un, per quanto frenato e secco, melodramma lirico di una Nazione, in cui ognuno ha una propria parte precisa (due casi per tutti: i fascisti veneti sono i cattivi, Giuseppe Pinelli e Calabresi i buoni) e gli interessi maggiori sono suscitati non tanto dalle indagini e dalle rivelazioni (che non ci portano a nessuna verità riconosciuta ma soltanto ad una valanga di informazioni che sta poi allo spettatore rielaborare, nonostante l’esplicativo ma efficace faccia a faccia pseudo-onirico tra Calabresi e il capo degli agenti segreti Federico Umberto D’Amato) quanto dagli episodi più intimi e sofferti, come l’arrivo della madre di Pinelli all’ospedale o certi sguardi di Calabresi alla moglie mentre passano vicino ad una scritta sul muro che accusa il commissario di essere un assassino.

 

Tanto è vero, d’altro canto, che non convince più di tanto la narrazione del rapporto tra Calabresi e Pinelli, su cui, penso, ci sia più leggenda che realtà, che però va incontro alle esigenze degli sceneggiatori: descrivere i due personaggi come due martiri, a costo di far loro due santini. Ora, non sta a me e non sta ad un film giudicare chi siano stati due uomini morti in circostanze tragiche ed ingiustificate, ma la malafede che mi è congenita mi porta a pensare che le due rappresentazioni siano per alcuni versi parziali e per altri versi discutibili. Specialmente su Calabresi, quasi come se, a nome di una sinistra all’epoca sulle barricate ed oggi imborghesita, si volesse risarcire la memoria di una persona infangata in vita.

 

Opera nobile, per carità, ma quanto di spontaneo o di attendibile c’è in una storia in cui la verità è tutto sommato un optional? Proprio per questo tendo a considerarlo un romanzo, in cui ovvie logiche narrative si mischiano con fatti reali o realistici. A questo punto mi pare chiaro che il film, al di là dei suoi valori e dei suoi difetti, si schieri, com’è naturale, dalla parte delle vittime, pur tuttavia cercando sempre di non scontentare la parte politica a cui regista e sceneggiatore appartengono. Solo un accenno sfuggente al manifesto dell’Espresso e alla campagna diffamatoria di Lotta Continua: quantomeno criticabile. Per quanto concerne lo Stato istituzionale, è curiosa la scelta di isolare Aldo Moro nel suo irrequieto tormento cristiano e di rappresentare gli altri esponenti in maniera anche grottesca (Mariano Rumor che si passa il fazzoletto sulla fronte perché ha la febbre o il questore di Milano impersonato dall’esperto commediante Sergio Solli e il collega funzionario di Giacinto Ferro che formano una coppia quasi ridicola), mentre Giangiacomo Feltrinelli incarna un eroe romantico ed ideale e il giornalista Carlo Nozza (Thomas Trabacchi) è più funzionale che altro nel suo coraggio da reporter.

 

Per il resto, tralasciando tutto l’apparato di mezze verità varie, Giordana impagina il film con molta cura e con dietro l’esperienza di Pasolini, un delitto italiano, il cui impianto è simile a questo Romanzo di una strage. Più che la tensione, comunque ben tenuto, a tener botta è l’interesse e la curiosità per un’opera difficile e per certi versi simbolica che non vuole essere didattica ma vorrebbe al contempo insegnare qualche cosa. Esteticamente impeccabile (fotografia cupa di Roberto Forza, montaggio armonioso di Francesca Calvelli, musica potente di Franco Piersanti), eticamente corretto, è per molti versi un’occasione mancata che poteva essere qualcosa di più e per altri versi un’operazione dignitosa e doverosa, solida nonostante le lacune, robusta malgrado le imperfezioni, ricca di attori d’onesto mestiere ed usati con egregio equilibrio (Luigi Lo Cascio ne ruolo del giudice Paolillo, Michela Cescon e Laura Chiatti come mogli di Pinelli e Calabresi, Giorgio Colangeli e Giorgio Tirabassi nei panni dei due agenti segreti), impiegati anche in piccoli ruoli se non camei (Luca Zingaretti, Giulia Lazzarini, Francesco Salvi, Benedetta Buccellato che è un incisiva Camilla Cederna), dominato dai due effettivi protagonisti, Pierfrancesco Favino (un tormentato Pinelli) e Valerio Mastandrea (un dolente Calabresi).

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