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Dream House

Regia di Jim Sheridan vedi scheda film

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La recensione su Dream House

di degoffro
4 stelle

Se non si è del tutto sazi del binomio case/fantasmi, “Dream house” può avere ancora un minimo senso. Altrimenti meglio lasciar perdere. Jim Sheridan si confronta, per la prima volta in carriera, con il genere: il risultato è onesto, diligente, omologato, derivativo, senza pretese e senza sorprese.

Scritto da David Loucka (a fine anni ottanta aveva firmato la sceneggiatura del simpatico “Quattro pazzi in libertà”, unico titolo degno nella sua limitata filmografia) e prodotto, tra gli altri, da Ehren Kruger (come sceneggiatore, da “Scream 3” a “The ring” e relativo seguito fino a “The skeleton key”, ha sempre bazzicato nel genere thriller/horror tra pochissimi alti – “Arlington road” – e molti bassi – il resto), “Dream house” fatica a percorrere strade diverse da quelle consuete e già mille volte battute, ma nella prima parte conserva una sua dignitosa seppur telefonata tensione.

Will Atenton lascia il suo incarico da editore a New York con un cospicuo assegno di liquidazione e si trasferisce con la sua famiglia in una splendida villa nel New England per scrivere il suo primo romanzo e passare più tempo con la moglie Libby e le sue due figlie Dee Dee e Trish. Libby è entusiasta della nuova condizione e felice della scelta di Will di lavorare a casa, tanto da poter affermare: “Mi sento al sicuro quando sei qui.” Non l’avesse mai detto. In una notte buia e tempestosa, la figlia più piccola crede di vedere l’ombra di un uomo fuori dalla finestra. Will cerca di tranquillizzarla ma il giorno dopo trova impronte di scarpe sulla neve. E inizia ad agitarsi pure lui. Quando, qualche giorno dopo, scopre nella cantina di casa alcuni adolescenti che proprio lì, di notte, organizzano strane e inquietanti funzioni funebri tra candele manichini e bambole di pezza e, cacciati via in malo modo, gli parlano di vecchi omicidi irrisolti il cui colpevole è ancora in libertà, Will, visibilmente sempre più preoccupato, decide di iniziare ad indagare. Soprattutto dopo che la piccola Dee Dee sente la figlia della vicina che, parlando al telefono, sostiene che “chiunque vive in questa casa viene ucciso” e dopo che la moglie giunge all’amara constatazione che “c’è qualcosa che non va in questa casa”. Scopre così dalla vicina Ann Paterson, madre divorziata in lotta con il marito per l’affidamento della figlia, che sono passati esattamente 5 anni dalla tragedia avvenuta nella sua abitazione, quando una madre e le sue due figlie vennero assassinate. Le indagini giunsero alla conclusione che il colpevole fosse il padre, Peter Ward. Will, constatata la riluttanza della polizia locale nell’aiutarlo, decide di andare a trovare Peter Ward nella clinica psichiatrica in cui è stato rinchiuso per venire a capo della matassa. La sorpresa, ahimè, non sarà per lui piacevole.

L’immancabile, pilotato, ma gustoso colpo di scena che capovolge la prospettiva degli eventi è a metà film e non in conclusione (ma attenzione, il trailer rivela sciaguratamente già tutto, rovinando l’unica effettiva sorpresa), il che purtroppo non è un bene perché la curiosità lascia spazio alla noia, il mistero si fa sempre più loffio, la suspense non tiene il passo, anche perché lo svilupparsi dello stanco intreccio si fa ancor più monocorde e prevedibile. La soluzione finale è raffazzonata, frettolosa, molto deludente e anche ridicola, persino impacciata.

Daniel Craig (prima di lui si era pensato anche a Brad Pitt e Christian Bale) nasconde bene lo spaesamento e si rivela ancora una volta ottimo ed apprezzabile nel tentativo di dare una definizione psicologica attendibile al suo personaggio, Rachel Weisz è bellissima ma il suo ruolo è insignificante, Naomi Watts è troppo defilata.

Jim Sheridan stringe i tempi (più di 90 minuti non si sarebbero potuti reggere), riesce quasi ad evitare, almeno fino alla “bruciante” conclusione, rumorose ed eccessive baracconate, non abusa dei riconoscibili elementi tipici del filone mentre calca troppo la mano sull’aspetto sentimentale/romantico (diverse le reminescenze da “Ghost”), predilige una messa in scena ordinata e ordinaria senza trovare una chiave di lettura minimamente inedita o suggestiva e soprattutto senza evitare momenti di umorismo involontario, tutti concentrati nel calderone finale. Il regista è chiaramente disinteressato e svogliato, nemmeno a mezzo servizio, forse anche perché il thriller non è nelle sue corde, soprattutto se incentrato su un soggetto zeppo di ingenuità, stereotipi (non manca la stanza segreta dietro all’armadio) ed incongruenze, le cui potenzialità sono ormai ridotte all’osso e di fronte al quale si dovrebbe avere il coraggio di rispondere un no secco a chi ha ancora il coraggio di proporlo, soprattutto se ci si chiama Sheridan, Craig, Weisz e Watts e le proposte di lavoro certo non mancano.

Ad ogni modo Jim Sheridan ha tentato invano di togliere il suo nome dal film per problemi con i produttori sul final cut e con i suoi interpreti ha rifiutato di partecipare alla promozione dell’opera: “Dream house”, fragoroso flop al botteghino americano, non è così brutto da essere rinnegato ma certo mette molta tristezza e malinconia se si pensa che è diretto da chi in passato ha firmato opere come “Nel nome del padre”, “Il mio piede sinistro”, “Il campo” e “The boxer” e che non sembra più ritrovare l’ispirazione di quei tempi, purtroppo da considerare ormai irrimediabilmente lontani e perduti. Sul set è nato l’amore tra Craig e la Weisz. Nel cast si rivede con piacere, sia pure fugacemente, Jane Alexander.

Voto: 5

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