Regia di Paolo Taviani, Vittorio Taviani vedi scheda film
Non è un film sulla realtà carceraria, il carcere è il palcoscenico allargato del piccolo teatro all'interno di Rebibbia dove si terrà la rappresentazione del Giulio Cesare di Shakespeare, perchè sono i sei mesi di prove il fulcro narrativo di questo film.
Ci vengono presentati detenuti, ma i Taviani fanno sconti: sono in carcere per un motivo preciso, hanno sbagliato e stanno pagando per le loro colpe.
E' il vissuto tragico di queste persone che emerge e fornisce la spinta per entrare nei personaggi fin quasi a travolgerli, incanalando quel demone interiore e trasfigurandolo nel Giulio Cesare, storia di amicizia, tradimenti, complotti e "uomini d'onore".
Mi ha stupito in maniera profonda questo film dei Taviani, rispettivamente classe '29 e '31, capaci di rimettersi in gioco come due giovani registi in erba, affrontare vantaggi e svantaggi del digitale e fare un film molto moderno, fondendo insieme elementi di documentario, teatro e cinema con un equilibrio sorprendente senza che nessuna delle tre forme espressive prenda il sopravvento sull'altra.
E' un film sull'arte come arricchimento personale anche e soprattutto per dei reietti, molti dei quali da "fine pena mai", su due mondi (vita reale e carcere) così lontani ma che necessitano di un avvicinamento, perchè il carcere è un luogo di espiazione di colpe questo sì, ma deve essere ricordato anche e soprattutto per il suo potenziale valore rieducativo.
Personalmente è stata visione ricchissima dal punto di vista emotivo, grazie alla capacità dei Taviani nell'immergerti in questa esperienza audiovisiva di volti e dialetti diversi, quest'ultimi in particolare perfettamente funzionali ad una maggiore naturalezza nella recitazione. Spiccano soprattutto uno straordinario Striano nei panni Bruto, il carismatico Arcuri nei panni di Cesare, ma quella frase finale di Cassio/Cosimo Rega (fine pena mai), quando tutto è finito e ognuno torna nella realtà delle celle, ti rimane scolpita e non ti lascia più.
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