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L'ultimo terrestre

Regia di Gianni Pacinotti (Gipi) vedi scheda film

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La recensione su L'ultimo terrestre

di OGM
8 stelle

Il cinema italiano si aliena e si rinnova. Da una graphic novel di Giacomo Monti giunge lo spunto per un racconto crudo e rarefatto, spietato nel contenuto ma morbidissimo nelle sfumature umane. La Terra, pensandoci, è un paesaggio lunare. Lo sono soprattutto le città, dove la solitudine incapsula le esistenze rendendole uniche ed incomunicabili. I caseggiati anonimi sono la sede delle verità nascoste, dei vizi che si rifugiano nelle sale da gioco e si appartano ai bordi delle strade di periferia. Quelle pratiche, collettive, però ritagliate sulle singole personalità, sono le manifestazioni di massa in cui l’assurdo si riveste di banalità. Esiste, però, al di là dei riti di gruppo, un surreale appartenente alla sfera privata, che si stacca dal mondo per vivere in pace la propria mancanza di senso. Questa è la vita di Luca Bertacci, in grado di desiderare, ma  del tutto incapace di prendere iniziative. Succube dei colleghi sul posto di lavoro, e sessualmente inerme nei confronti delle donne, quell’uomo è colui che resta a guardare. Non interviene, né fugge, quando il suo amico viene massacrato di botte. Non si dichiara alla vicina che ama, ma nemmeno le nasconde il suo sentimento. L’ignavia, in lui, diventa una forma perfetta di innocenza, che lo distingue da tutti i suoi simili. Lui non pecca, non vince né perde, perché non ha obiettivi con cui misurarsi. La regia di GiPi traccia una ritratto sereno, e perfino romantico,  della sua nullità, immergendola in un contesto che, contrariamente a lui, è in preda alla spasmodica attesa di un evento epocale come l’imminente sbarco degli extraterrestri. Ognuno si macera nell’insoddisfazione aspettando una svolta, mentre Luca sembra del tutto estraneo a quel turbinio di sogni impossibili, che confondono le idee e inducono a commettere errori fatali. Egli sceglie la strada della resistenza passiva alla sventura, della rinuncia a controbattere all’ingiustizia e alla violenza, e in questo modo  oppone alla sventura la micidiale arma dell’indifferenza.  Luca, semplicemente, ignora: si dedica, con naturalezza, ad un imperturbabile scetticismo, che  lo rende sensibile alla realtà, però immune dallo stupore. L’inizio della sua vicenda fa pensare ad un Fellini sciacquato in uno sterile disincanto: la matura prostituta che accoglie Luca in un mobilificio, rievocando le antiche glorie della sua famiglia, sembra l’interprete tardiva di un Amarcord  ridotto ad un museo. Quella premessa introduce il grottesco azzeramento della memoria, che appiattisce il passato su una modernità disegnata a tavolino, e intanto avvicina smisuratamente il futuro, con le sue visioni fantascientifiche ed apocalittiche. In mezzo a questo mondo euforizzato dalla sospensione della Storia, Luca si muove con i piedi di piombo: si aggira come un omino timido e prudente, la cui pacata insignificanza stride platealmente con i richiami urlanti delle gigantografie impresse sui cartelloni pubblicitari. Ai piaceri surrogati egli preferisce un’autentica astinenza: una neutralità che equivale alla salvezza dall’impazzimento generale. Questo film ci presenta l’anonimato e l’inerzia in una veste assolutamente adorabile, che riesce a toccare il cuore parlando alla coscienza e alla ragione, senza, neanche per un attimo, cedere alla tentazione di ricorrere alla caricatura, al fine di suscitare tenerezza.  Il protagonista non è né una vittima, né un eroe, ma piuttosto un’oasi di tranquillità in un deserto agitato da un vento che fa tanto rumore, però solleva solamente sabbia.

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