Regia di Michael Haneke vedi scheda film
In quest’opera, il regista austriaco focalizza l’attenzione sull’impotenza della cultura e dell’arte nei confronti della vita, la cui inevitabile sofferenza improvvisa chiude i due coniugi, insegnanti e cultori di musica classica, nella necessità di recuperare il loro rapporto a partire dal corpo di lei, colpito da ictus.
Il linguaggio colto della cultura, con le sue battute intelligenti e la sottile ironia che lo sorregge, che in una normale coppia borghese colta e in pensione scandisce il ritmo della loro vita quotidina, progressivamente viene destrutturato, non vi è più spazio per l’estetica astratta; come un piccione invadente irrompe l’etica, che costringe i coniugi ottuagenari a fare i conti con il fisiologico, con il linguaggio spezzato di lei, che pure diventa veicolo di una nuova comunicazione, basata sulla prossimità vivente dei corpi, sulla vicinanza empatica, sul silenzio che unisce nell’amore, attraverso le immani fatiche che il marito deve compiere per rendere almeno possibile la sopravvivenza di lei, un’esistenza che progressivamente, nel decorso irreversibile, è destinata a spegnersi.
Inutili diventano tutte le preoccupazioni borghesi della figlia, che pur di scaricare la sofferenza e i sensi di colpa cerca in qualche modo di proiettare nel padre la mancanza di una soluzione adeguata alle cure che si potrebbero offrire alla madre.
Non si può più nulla, lui fa il possibile, licenzia un’infermiera incompetente, diventa egli stesso esperto nell’accudimento della propria moglie, ma le sue fatiche, le sue sofferenze sono distanti persino dalla figlia, tutta presa dalla sua vita estetica in ascesa, sono distanti da tutto il mondo, che va avanti con le sue cortesie, con la sua cultura basata sulla rispettabilità, ma che sostanzialmente rivela un’opaca e disarmante indifferenza, di fronte alla malattia e alla morte, di fronte a un corpo martoriato che non può articolare la voce in un linguaggio comprensibile.
In questa regia magistrale, la casa dei coniugi diventa così il teatro di una sofferenza vissuta insieme, fino alla fine, con un’eticità rigorosa, che non sopporta più le raffinatezze della musica e dell’arte, raffinatezza che diventa sempre più un’eco lontana dei bei tempi, che deve essere interrotta, spenta, perché se è vero che ogni tanto ritorna, essa non è più come conforto, catarsi e creatività, ma una finzione grottesca come lo sono, in modo indiretto, le visite stesse della figlia, con il suo pianto che non incide sulla realtà viva, nuda e cruda, spietata, realtà che nel suo indecifrabile dolore a due può assaporare soltanto le strette dei corpi, i racconte semplici dell'epsodicità dell'infanzia, come un ritorno all'essenziale, all'immediatezza minimale, scomposta nel significato, ma lucida nella sua materialità vivente. Spietata fino alla fine, perché solo la pietà al suo apice può diventare spietatezza indecifrabile, follia, religiosità, visione, ritorno incalcolabile all’estetico, ma nella solitudine più estrema, in cui lampeggia, nel delirio, una riconciliazione paradossale, come nell’Abramo di Kierkegaard.
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