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Amour

Regia di Michael Haneke vedi scheda film

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La recensione su Amour

di Theophilus
10 stelle

AMOUR

 

Quello su cui Michael Haneke fa riflettere col suo ultimo film è che il dramma dell’uomo non è la morte, ma la vita.

Amour guarda da fuori non la prospettiva ultima dell’uomo, ma una delle tante possibilità, delle potenziali estrinsecazioni del percorso umano: c’è forse la speranza, da parte del regista, di essere (solo) spettatore neutro di un dramma rappresentato fuori di se stesso e che non lo riguardi?

Avrebbe potuto tracciare un cammino ancora più atroce, ma anche immaginarne altri più lievi. L’uomo non sa nulla della strada che l’attende. Haneke non si rifugia nell’oltre, nel metafisico. Non distoglie lo sguardo dal guado che bisogna comunque attraversare: è un compito a cui l’uomo non si può sottrarre.

Ma il travaglio dell’esistenza può essere tutta un’inutile, dolorosa costruzione resa stupida e patetica da una morte improvvisa, repentina e, soprattutto, inattesa. Può essere una fine a cui non stavi pensando minimamente, che non si andava prospettando per nulla e che non stava macerando la mente di chi si apprestava a morire. Per dirla con un celebre aforisma, trasformato in aggettivo simbolo di sdrammatizzante ovvietà, può presentarsi la situazione di quel tale monsieur de La Palisse che cinque minuti prima di morire era ancora vivo. Può capitare, però, anche il caso di una lunga, scandalosa e crudele sottrazione di umanità che degrada l’uomo al punto da non lasciargli altra speranza che qualcuno la faccia finire al più presto. Haneke non propone la soluzione mistica, non prospetta una salvezza ultraterrena. Perché, a ben guardare, potrebbe non essere quello l’antidoto efficace ad un possibile (ma ignoto) orrore che sta tutto nella vita, nell’esistenza.

Non c’è alcun senso di attesa, nello spettatore, dell’esito della storia. Le prime immagini sono eloquenti. Haneke non vuole qui creare un ‘climax’ drammatico. ‘Come andrà a finire’ è domanda cinematografica, non filosofica ed esistenziale. La parola ‘fine’ è sottintesa. La domanda vera è ‘come si arriverà alla fine’.

Subito dopo entriamo in un teatro e potrebbe suonare come concessione autoreferenziale la voce che invita i presenti a spegnere i telefoni cellulari prima dell’inizio del concerto. Con provvidenziale automatismo chi guarda il film si adegua a tale disposizione. Haneke è conscio del proprio valore e pensiamo che abbia voluto garantire a se stesso prima ancora che al pubblico più sensibile il rispetto per la sacralità del suo lavoro.

Due maschere contribuiscono entrambe in forte misura al dipanarsi del dramma che segue. Sembra quasi blasfemo a chi scrive parlare in termini di bravura attoriale della presenza – se ci è concesso – consustanziale di Emmanuelle Riva nella terribile spettralità di Anne. L’attenzione del regista è, però, maggiormente concentrata su chi ‘resta’, su chi, solo, può sobbarcarsi il problema, su chi, ultimo, deve rispondere all’eterna domanda: “che fare?”. Ma c’è un tentativo di trasfusione dei ruoli, il porsi il problema di che cosa ‘l’altro’ farebbe e vorrebbe a parti invertite: Haneke si guarda allo specchio e si vede nei panni di Anne e Georges. Decade il sospetto di autocompiacimento in Haneke, che affonda il coltello nella carne viva sua e nostra; viene pure a perdere di forza la nostra domanda iniziale.

Anne afferma che non ha senso continuare a vivere (e sta inevitabilmente dentro alla sua prospettiva contingente di persona colpita da infarto cerebrale, per quanto le sue parole possano risuonare assolute). Poi, però, accarezza l’idea della bellezza di una lunga vita, rivista attraverso le fotografie che la ripercorrono e glie la rimandano (e qui risuonano gli echi di un passato vivo, bello, il suo specifico passato, ma non c’è lo sguardo nostalgico e sentimentale ad appannare quella forza, bensì la consapevolezza che non si attacca ad illusioni). La sua esistenza è stata proprio quella. Donna ottuagenaria, una vita nella musica, una famiglia dalle prospettive salde, una casa che riprende a vivere e torna ad essere luminosa nell’attimo finale del film, quando la figlia Eva (Isabelle Huppert), sola, si guarda attorno e, libera dai fantasmi del presente, riprende a respirare e ripercorre la vita cha là ha vissuto.

È la vita il dramma dell’uomo. L’al di là è un’altra cosa. Non sappiamo di collegamenti, di passaggi, di nessi fra i due momenti. Il ‘dopo’ non è un premio o una punizione. È solo qualcosa che l’uomo non conosce. Qualcosa per cui, se non esiste, l’uomo non avrà il modo di rammaricarsi e, se invece c’è, potrebbe non spiegare il non senso della vita.

La musica che si ascolta nel film è di Schubert, il piccolo, celeste musicista degli ‘Improvvisi’. Inutili la grandezza, la magniloquenza, lo sforzo titanico. All’allievo che, ignaro della sua improvvisa condizione andrà a farle visita, Anne chiederà, infatti, di suonarle ‘solo’una delle sei bagatelle dell’opera 126 di Beethoven.

Tutto questo è amore. Resistere fino all’ultimo, fino alla fine. Ma anche appropriarsi dell’idea che sia possibile ed auspicabile gestire la fine. Il film non ti pone davanti ad una scelta. L’unica scelta è fra l’io e l’altro, l’amore e il suo rifiuto, la forza di resistere e l’abbandonarsi all’alibi di un ripiego impossibile.

Ancora una volta il rigore inflessibile, ma profondamente umano, di Haneke prevale. Eva piange di una commozione tutta interiore, fine a se stessa. Georges, marito di Anne, impersonato da un inarrivabile Jean-Louis Trintignant, inchioda la figlia ad una realtà elementare e terribile. L’occhio di Haneke non cede al sentimentalismo e, partecipe della precaria condizione dell’uomo, non distoglie il suo sguardo. Se il dolore invade la vita di un essere umano, solo l’oblio può alleviarlo e di questa verità testimoniano, sconvolgenti nella loro semplicità, le ultime immagini del film.

 

Enzo Vignoli

30 ottobre 2012

 

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