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Amour

Regia di Michael Haneke vedi scheda film

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La recensione su Amour

di FilmTv Rivista
8 stelle

Comincia da un’effrazione, Amour. Da una proprietà privata violata e dalla morte, dalla fine della storia che sta per raccontare, da quel che rimane: una casa vuota, il corpo privo di vita di Anna, l’assenza di Georges. E poi, prima, l’auscultazione minuziosa del rapporto di questa coppia, il battere scomposto del tempo che fugge. Loro, i protagonisti, sono ottuagenari insegnanti di musica. Lei è degradata da una serie di ischemie. Lui la cura. Amour è questo, soprattutto: una scarna dimensione teatrale, un palcoscenico/appartamento, due interpreti giganteschi (Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva) e un cinema altissimo, laico e morale. Che è, per pudore, reticente sulle cause, colmo d’ellissi, ma attento agli effetti, agli affetti: quel che non dice lo rivela la presenza dei due attori, l’esatto disegno, nei silenzi e sui volti, di sentimenti sfuggenti e paradossali. Ci sono le eroiche goffaggini della vita al tempo della morte, qui, la disperazione calma, lo sgomento educato, la necessaria vacuità delle parole, il bisogno futile di un passato da raccontare e quello profondo di una prossimità fisica. Amour mette in scena l’aggiustarsi grottesco e struggente dell’equilibrio tra un uomo e una donna, nella tenera e crudele agonia della fine dei giorni. E il cinema di Haneke si spoglia: del sadismo giocoso, dei funny games, della sfacciata provocazione teorica. Continuando ad anagrammare i materialistici temi di sempre, il concentrarsi della violenza nel luogo deputato alla massima sicurezza (casa, dolce casa), la necessità per l’Occidente di non guardare al proprio male (si pensi agli emblematici Niente da nascondere e Il nastro bianco), la mostruosità del rapporto genitori/figli. Il focolare domestico, ambiente al solito borghese, protagonista assoluto, si chiude in se stesso, asfissia sino all’allucinazione. Le porte sono serrate: dall’esterno irrompe solo incomprensione, l’anaffettività di chi vive l’essere figlio, allievo, taumaturgo, come uno sterile mestiere. L’incapa-cità di capire quel che Haneke ci de-scrive con rigore: il dono totale ed e-goistico, la compassione efferata, il discorso sentimentale e funereo di due individui che si legano l’uno all’altro, quel vile, commuovente vizio chiamato amour.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 43 del 2012

Autore: Giulio Sangiorgio

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