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Hunger Games

Regia di Gary Ross vedi scheda film

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La recensione su Hunger Games

di ROTOTOM
4 stelle

In un futuro distopico la città ipertecnologica di Capitol City dello stato di Panem organizza crudeli circenses (non a caso, il nome) durante il quali 24 ragazzi sorteggiati nei  vari distretti devono sfidarsi l’un l’altro fino alla morte. Gli Hunger Games vengono filmati e trasmessi in diretta per il ludibrio dei variopinti, grotteschi abitanti Capitol City . Ma allo spietato reality sono obbligati ad assistere i sottomessi cittadini degli altri distretti. Tratto da una fonte letteraria, la trilogia di Susan Collins, nata facendo zapping di fronte alla tv, Hunger Games si propone come la derivazione Sci-Fi apocalittica, dopo quella fantasy di Harry Potter e quella modestamente horror – melò di Twilight , dei film con tematiche  adulte per adolescenti interpretati da adolescenti, o poco più, nei quali veicolare identificazione e divismo. Il modello che propone Hunger Games è il personaggio di Katniss , Jennifer Lawrence, una ragazza forte, selvaggia, autonoma. Atletica e bella ma non bellissima. Un nuovo canone che spodesterà l’intontimento emotivo e inerte della Bella di Twilight.  Almeno.

Non è nulla di profetico. Lo sguardo al passato è più importante rispetto a quello futuro. Sia dal punto di vista dell’ispirazione – riferimenti al mito di Teseo e i giochi dei gladiatori Romani. Il demiurgo che sovraintende i combattimenti si chiama Seneca, uno che con le tragedie nichiliste ci dava dentro– sia dal punto di vista filmico visto che non è portatore in sé di una spiccata originalità ripescando stili di un passato cinematografico  già consumato e digerito e quindi già assimilato. Film pronto per un successo che non ponga assolutamente alcuna domanda, ratificando anzi le risposte già in possesso del pubblico pagante abbassando  il limite della comprensibilità dell’intreccio ad una grezza metafora giocata sull’accumulo e sull’immediata riconoscibilità del carattere di ogni personaggio a diretto vantaggio del populismo da platea che anima chi assiste. 

Quello in cui il film fallisce è infatti nell’immaginario fantascentifico di mutazione sociale progressiva, una distopia sciocca dalla facile – troppo – iconizzazione sfiorando il ridicolo involontario che disinnesca il ricercato ridicolo volontario che fa da cerchio al quale il regista dà un colpo dopo ogni colpo dato alla botte della caccia nell’arena nella quale i ragazzi si uccidono.   I personaggi si sfoltiscono nella boscaglia come figurine di un videogioco, la prima mattanza iniziale, filmata con camera nervosa a nascondere ogni efferatezza, riguarda i concorrenti privi di precedente presentazione , quelli senza personalità quindi, replicando le istanze delle eliminazioni delle case dei reality. Brevissime ellissi narrative autoconcludono ogni istante della gara – ferimento/guarigione; scontro/morte/ avanzamento - per la sopravvivenza senza lasciare nulla alla sospensione narrativa e azzerando di fatto la tensione emotiva. Montaggio che alterna uccisioni alla insulsaggine del pubblico e del presentatore (un improponibile Stanley Tucci) a scopo lenitivo.  

Ne viene fuori un film eccessivamente lungo e inevitabilmente piatto sia dal punto di vista formale che narrativo. Non elevatosi al rango di fantascienza filosofica, minimizzato il concetto di stratificazione dell’immagine propria del reality, sacrificata la radicale brutalità dei film di genere e proposto un rozzo immaginario visivo,  Hunger Games si pone  come prodotto di calcolata medietà e ricercato basso valore cinematografico. Sarà un successo, per questo.

 

 L’inganno del reality show.

Costringere alla visione di una realtà posticcia meno interessante della realtà vera così da dare l’impressione allo spettatore di essere migliore rispetto di ciò a cui assiste e al contempo essere assolto dal senso di colpa della perdita di tempo inaudita che seguire questi show comporta, dalla scusante della visione con spirito critico. Uno spirito critico che nello spettatore si è progressivamente abbassato negli anni a colpi proprio di reality che come la tossicodipendenza ha in sé la promessa di lenire il male che essa stessa  procura. Fino al completo assorbimento – la morte – della vita nella finzione. A questo si rimanda al prossimo film di Matteo Garrone, Reality, in gara a Cannes.

Hunger Games di Gary Ross, impone la visione (battuti tutti i record per la prevendita americana dei biglietti) forte di un battage pubblicitario virale e ossessivo  traslando l’obbligo di assistere al film-  abilmente orchestrato – nella realtà, direttamente dalla finzione – l’obbligo di assistere al reality degli abitanti di Panem -  .  Rielaborando poi dalla realtà quegli stilemi necessari -  poca profondità dei personaggi, trama lineare, stereotipi conclamati -  per farsi adorare proprio da chi è avvezzo alla finzione del reality. Un cortocircuito che non lascia scampo. All’anteprima del film la sala era piena come raramente capita ora di vedere.

Quelli che guardano. Noi siamo meglio, è questo il trucco. E siamo talmente bassi nella considerazione di chi produce questo film che per forza di cose l’ élite del pubblico  bue eccitato dagli eccidi di Panem deve essere descritto come una deriva di debosciati ridanciani (tra)vestiti in modo clownesco . Risulta facile tenere per la giovane eroina, sana e rubiconda, coraggiosa e onesta. Ma gli spettatori di riferimento del crudele reality a cui partecipa Katniss non è propriamente il pubblico di Panem, ma – subdolamente - quello in sala. E’ a noi che viene chiesto di aderire al semplice motore narrativo composto da azione/reazione, a interessarci della sorte dell’eroina e del suo – inesistente – romanzo di formazione. E’ a noi che viene chiesto di pagare il biglietto per lo spettacolo. E’ a noi che è stato detto che il film sarà una trilogia.

Il film fallisce anche nella rappresentazione ontologica del reality, cuore del film, limitandosi a ricordare allo spettatore che il combattimento è ripreso dalle telecamere e inquadrando di tanto in tanto la “cabina regia” ma senza approfondire mai il nesso causa-effetto tra gli Hunger Games e la società che si è formata all’ombra di questi giochi, tradendo di fatto la “realtà” proposta con espedienti finali da fantasy come la creazione “magica” di “creature” che nulla hanno a spartire con lo spirito del film.

 Neppure dal punto di vista visivo si raggiunge l’invasivo spionistico del Grande Fratello, la morbosità, la ricerca dell’effetto, l’attenzione al corpo in tutte le sue manifestazione.  In Hunger Games  non esiste la trasformazione del linguaggio  - visiva e verbale -  propria dei reality show. I dialoghi del reality ontologico – la realtà dell’arena in cui si combatte - sono ritmati come slogan dei medi film di azione o sentimentali (le due anime del film) che nulla hanno a che vedere con lo sproloquio ( in)consapevole proprio delle sceneggiature dei veri reality show trasformate dall’ignoranza dei suoi protagonisti in perle di anticultura contemporanea. Questo aspetto è invece traslato sulla platea incongrua di Capitol City, Panem.  

Questo perché siamo noi spettatori a doverci sentire migliori degli spettatori di Panem, più critici e più giusti. Per ottenere questo risultato ogni asperità visiva, tematica e narrativa deve essere tenuta sotto controllo affinché lo spettatore non si senta in colpa per “ vedere”, ma giudichi in maniera semplice e univoca i colpevoli della mattanza. Da questo punto di vista il film ha pienamente centrato il suo scopo, scostando l’aspetto (auto)critico a vantaggio di una furberia commerciale che ci accompagnerà per altri due film.

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