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Warrior

Regia di Gavin O'Connor vedi scheda film

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La recensione su Warrior

di scapigliato
8 stelle

Nick Nolte è uno dei migliori attori che abbiamo e che il cinema continua a regalarci. Credo fortemente che, nonostante l’invasione dei teen-idol, i ruoli migliori per un attore arrivino ad una certa età e che il fisico, il corpo attoriale, la voce, lo sguardo e quella faccia un po’ così che abbiamo noi che facciamo gli attori, facciano tutto il resto. Importante però è anche il corpo nudo e giovane del cinema fisicato, da sempre in bassocontinuo nell’industria cinematografica, ma che recentemente si è rivitalizzato tra Vin Diesel, Chris Evans e Taylor Lautner, e che inevitabilmente imploderà su se stesso confezionando film puramente edonisti che ne verificheranno la consunzione – l’operazione è già in corso, si guardi 300. Fatto sta che il corpo-muscolo di Tom Hardy e Joel Edgerton, di Koba, Matt Dog Grimes e altri, serve ugualmente per darci le misure e le distanze dell’attore come corpo e dell’attore come testo. Se denudiamo Warrior di tutte le scene di combattimento ci ritroviamo in mano un bellissimo family-drama con tutti i ruoli stereotipati del caso, ma che interpretati da attori del calibro di Nolte e Hardy non si banalizzano mai. Le scene di lotta invece, orpello commerciale che strizza l’occhio ai recenti fighters-movies, spettacolari e quant’altro, rallentano la vis drammatica, e ricattano il pubblico spettatore con facili climax. Il fim è difatti troppo lungo per quello che racconta, e lo confermano quelle accelerazioni narrative che tagliano il racconto sintetizzando cosa sta accadendo, oppure la fin troppo banale resa del body-count con cui gli avversari escono di scena – quella fumettistica di Sam Raimi in Pronti a Morire resta insuperabile.

Va detto che tutto va a favore degli attori e dei loro personaggi. Tom Hardy, da Bronson in avanti sta dando prova di essere un talento naturale. Forse in lui si sposa l’attore-corpo con l’attore-muscolare, e senza contare Ryan Gosling in Drive, resterebbe l’unico attore a coniugare presenza muscolare – si badi: muscolare, non carnale, fisica o corporale – con la coscienza del personaggio. Il suo Tommy è un’ombra americana che da Brockden Brown in avanti è in continuo basso narrativo nelle pieghe delle trame statunitesi. La resa con cui l’attore londinese dà vita al suo “guerriero” è spiazzante, inquietante e da applausi. Molto probabilmente anche senza quei muscoli bovini, Hardy avrebbe potuto interpretare un ruolo del genere, forte solo della sua sconvolgente immedesimazione.

Per Nick “Cane Bastonato” Nolte, la storia è diversa. Uno dei migliori front-actor – mi si passi il termine – di tutta la storia del cinema, gioca di cliché e vince. Sono quei ruoli da Oscar – si veda Dennis Hopper in Colpo Vincente – in cui è il personaggio-tipo a fare il grosso, a dotare l’interprete di un background specifico e di una serie di intertestualità con cui giocoforza l’attore riesce sempre e comunque a portare a casa la partita. Qui però gioca Nick Nolte e infatti non aspettiamoci la solita sviolinata. Il clichè viene sconvolto, il suo vecchio alcolizzato redento è sobrio, piange in due scene molto convincenti e lacrima in silenzio a fine film, ma per il resto è sobrio, misurato e posato, per esplodere in una botta di energia rabbiosa in quella camera d’albergo, in quella mise che ce lo ricorda quando nei ’90 veniva arrestato in vestaglia per guida in stato di ebbrezza. E qui ritorna il corpo dell’attore, la sua faccia, il suo “muso”.

La regia di Gavin O’Connor gioca con l’indie e solo nelle scene di combattimento fa spettacolo da blockbuster, ahinoi dequalificando il film. C’è da chiedersi infatti se Warrior non potesse esser sviluppato solo sui rapporti tra i personaggi, lasciando i combattimenti, le arti marziali, sullo sfondo. La lezione eastwoodiana di Million Dollar Baby ci insegna che il ring è fondamentale, ma la vera partita narrativa si gioca fuori, negli spazi che disegnano i personaggi, il loro testo, il loro corpo, i loro volti. E in questo Warrior non è da meno, ma appesantisce il film con i combattimenti, oltre che a non dotare la pellicola della stessa carica autoriale e indipenente di Clint Eastwood. Infatti, il forte taglio conservativo del film fa sì che i rapporti di forza tra le costanti istituzionali di Patria, Esercito e Familia e l’individualità ribelle del singolo personaggio, siano sempre a vantaggio dei primi che non ne escono mai a ossa rotte, come ne esce invece il guerriero bohémien di Tom Hardy. Nulla da eccepire per la singolarità di Nolte e Hardy. Presi a sé gli attori danno il meglio di loro. È l’ingranaggio che, ossequioso, s’incastra su posizioni immobili. E per definizione, l’attore è un vettore, è mobilità, è divenire: l’attore è testo, corpo e azione. La fissità ideologica del film non aiuta a renderlo convincente fino in fondo, facendoci urlare di gioia limitatamente alle performazioni attoriali di Nick Nolte e Tom Hardy. E nel cinema muscolare questo non è poco.

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