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Shame

Regia di Steve McQueen (I) vedi scheda film

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La recensione su Shame

di OGM
7 stelle

Lo sguardo dell’altro. Ci imbarazza solo se ci è familiare. Se ci guarda dentro con curiosità, con interesse, magari con affetto, e non ci giudica. Perché è l’intimità la dimensione in cui si manifesta la vergogna. È lì, infatti, che la nostra nudità smette di essere uno spettacolo morboso per occhi indiscreti,  diventando l’immagine della nostra fragilità e il bersaglio di profondi desideri. Solo quando il sentimento è autentico il suo tocco fa tremare la pelle, trasmettendo il brivido alle profondità dell’anima. Non è una semplice questione di pudore o, come si dice, di decenza. Brandon non teme di esporsi di fronte agli estranei: le prostitute, le ragazze delle videochat, le partner occasionali. Solo di fronte alla sorella o a un’amante vera, Brandon si sente inibito, ha l’impulso di correre a nascondersi. Essere visto dai loro occhi è come essere posto di fronte a se stesso: la scoperta è una rivelazione per la coscienza, prima ancora che una violazione per la riservatezza. Quel raggio di luce illumina il cuore del problema: dietro la volontà di cercare rifugio in tanti piccoli misteri inconsistenti si cela l’incapacità di affrontare le sfide della realtà, quelle che prevedono di mettersi in gioco sul serio, di scommettere e rischiare, anziché, banalmente, comprare ed ottenere. Lo shock è rendersi conto che nella vita si tratta di vincere o di perdere, che la posta è alta, e comprende una parte fondamentale di ognuno, del suo corpo, del suo spirito. Il sesso fatto di prestazioni mercenarie, pratiche solitarie, immagini cartacee o elettroniche impedisce il contatto con il mondo, ed ogni interazione con l’altro che  non sia una mera compravendita. Brandon non si accorge di abitare dentro questa gabbia di finzione se non nel momento in cui qualcuno vi porta dentro le proprie emozioni sincere, accompagnate dal coraggio di comunicarle, senza paura di mostrare le proprie debolezze, o di chiedere gratuitamente, senza pagare, e andando incontro al pericolo di un rifiuto. Steve McQueen racconta la storia di un’uscita allo scoperto che il protagonista non avrebbe mai voluto, e che egli infatti continua a temere, e  fino all’ultimo, tenta in ogni modo di ricacciare indietro. Ciò che più di ogni altra cosa  vorrebbe respingere, è l’idea che si possa cercare un rimedio alla solitudine e all’infelicità che non sia un puro diversivo, un surrogato costruito su misura, in formato usa e getta.  Nel frattempo tutto il resto, l’universo fatto di gente in carne ed ossa, rimane momentaneamente fuori dalla visuale, oltre il margine dell’inquadratura, mentre Brandon occupa da solo la scena, immerso nei suoi pensieri, distratto ed assente benché lambito da voci femminili tenere, accorate o supplichevoli. Il suo percorso è stentato, elusivo, intermittente, come quella conversazione al tavolo di un ristorante, che non decolla, che gira intorno ai luoghi comuni, e che il cameriere continua ad interrompere. Anche il risveglio avverrà tramite un fatto invisibile, forse solo la terrificante ipotesi di un orrore, un’emergenza sconosciuta che si può intuire, ma che nessuno deve vedere. Shame finisce dove tutto potrebbe iniziare: una nuova libertà psicologica, un’apertura verso il prossimo che è rimasta troppo a lungo latente. Però, anche nell’istante finale, il discorso esita, nell’attesa che la svolta interiore sappia davvero tradursi, nei fatti, nell’auspicato cambiamento. 

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