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Alps

Regia di Giorgos Lanthimos vedi scheda film

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La recensione su Alps

di alan smithee
8 stelle

Locandina internazionale

Alps (2011): Locandina internazionale

Quando il destino crudele, il caso, la sfortuna, sottraggono dagli affetti e dalla normale consuetudine di vita quei soggetti che solo nel momento in cui vengono meno riesci  a valutarne appieno l’essenzialità ed il valore esclusivo incommensurabile, a quel punto, in quel particolare momento di vulnerabilità, intervengono i "granitici" quattro elementi del gruppo “Alpi” che imparano ad intrufolarsi nelle esistenze dei sopravvissuti allo scopo di assecondare, addolcire, rendere meno brusco il senso di perdita dell’estinto. Tutto ciò, almeno negli intenti, a scopo di lucro: un servizio ben professionale e serio, ben retribuito, che contribuisca ad alleviare il dolore ed il senso di perdita che suscita l'estinto nei superstiti. Come riuscire in tutto ciò?

Adottando un comportamento che prenda spunto dai racconti anche intimi attinti dai ricordi più personali estrapolati dai familiari del defunto, in modo da forgiare nel più breve tempo possibile una personalità costruita ad hoc che si introduca nella famiglia colpita dal lutto, riempiendo almeno in parte quel vuoto incolmabile lasciato da quella perdita improvvisa, alleviando almeno in parte un dolore difficile da accettare, facendo rifiorire un po’ di speranza.

Un’idea sconcertante ma a suo modo geniale che riunisce nel progetto due uomini e due donne, un’atleta ventenne e il suo irreprensibile allenatore, una intraprendente e troppo sensibile infermiera e il suo capo struttura. Il gruppo di lavoro decide di chiamarsi “Alpi”, come la catena montuosa più maestosa e imponente d’Europa, mentre all’interno della stessa ognuno dei membri assumerà il nome di una celebre vetta che costituisce l’esempio più opportuno a fornire l’idea di un senso di eternità e immortalità, elemento cardine e fondamento del loro intervento mitigatore di sofferenze e dolori interiori.

I problemi tuttavia iniziano a manifestarsi quando il necessario scollegamento caratteriale e mentale richiesto e posto come primo fondamentale comandamento morale di un codice comportamentale anche solo mentale posto alla base dell’operato di questi singolari angeli consolatori, viene inesorabilmente meno col cedere inesorabilmente rovinoso delle barriere emotive che sembrano sgretolarsi di fronte al dramma intimo dei superstiti. Questa inarrestabile deriva conduce in particolare le due donne verso un dramma intimo che annulla ogni certezza e catapulta in una dimensione difficile da gestire con la freddezza prevista dal codice comportamentale ipotizzato, dove angoscia e disperazione della famiglia del defunto finiscono per mescolarsi con le inevitabili personali problematiche che ognuno degli “alpeis” nasconde in sé da chissà quanto tempo.

Giorgios Lanthimos, regista greco dalla eccentrica ma non certo addomesticabile personalità artistica che mi ha letteralmente stregato col suo precedente e devastante e fin più eccessivo Kynodontas, è uno di quegli autori che seguirei anche a costo di non facili compromessi: come quello di affrontare la sua ultima complessa opera - in Concorso a Venezia 2011, ma rimasta nel cassetto più nascosto di chissà quale distributore poco avvezzo al rischio e a quanto ne so inedita persino nella più espansiva Francia - in versione originale greca con sottotitoli in spagnolo, senza conoscere quest’ultimo né tantomeno la lingua d’origine. Tuttavia, complice una certa bene accolta assonanza idiomatica della lingua iberica con la nostra, che ci rende tutti noi italiani un po’ maccheronicamente parenti o naturalmente complici di una medesima origine neolatina, sono riuscito in qualche modo ad affrontare questa notevole opera terza del grande regista ellenico.

Che mostra anche questa volta una passione viscerale per i rapporti di sudditanza estrema, nati e organizzati per fini certo estremi, ma in fondo almeno teoricamente condivisibili, e che vedono burattino e burattinaio interagire, organizzarsi per una sopravvivenza fisica e interiore che crei uno scudo protettivo efficace contro una realtà troppo dura o deviata per essere accettata e digerita senza venire corrotti dalla mediocrità e dalla perversione del mondo circostante.

Un cineasta che con la sua potenza espressiva riesce ad annoverarsi tra quegli autori, tutti europei, come Greenaway, come Haneke, come Joao Pedro Rodriguez e solo pochi altri ancora, i soli in grado di portare avanti con determinazione un proprio personale ed originale percorso narrativo che li coinvolge in prima persona, urgente e pressante come una precisa assillante inquietudine di vita.

Un’esigenza di pensiero che li tiene saldamente ancorati ad un loro personalissimo stile che trova nell’arte figurativa cinematografica la forma espressiva più consona per placare o invece talvolta stimolare talune proprie paure e ossessioni grazie alle quali tenersi vivi e vitali nell’arte.

Un’opera eccezionale e devastante che dovrò comunque riaffrontare, scegliendo, non appena sarà possibile, condizioni di fruizione migliori e più vicine alle mie abituali capacità di comprensione linguistiche, purtroppo non particolarmente articolate.   

 

 

   

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