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Paradiso amaro

Regia di Alexander Payne vedi scheda film

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La recensione su Paradiso amaro

di PompiereFI
8 stelle

Paradiso in cielo e Paradiso in terra. Paradiso inteso come tregua definitiva dell’anima o come pacificazione dei rapporti sentimentali, sempre così sbilenchi, imprevedibili, singolari. E Paradiso Terrestre percepito come territorio immacolato e puro, luogo intimo dove i ricordi ci guidano attraverso un’esplorazione a ritroso, verso quelli che sono i nostri discendenti. Ed è qui che il “Paradiso amaro” di Alexander Payne ci fa trattenere il respiro, sigillare le labbra in un rispetto ossequioso, regalandoci l’illusione di poter entrare in contatto con quelle poche certezze che la vita ci offre.

 

È la voce di Matt King (George Clooney), ricco proprietario terriero in una delle isole Hawaii grazie a una lontana eredità che risale a principesse e banchieri, a spiegare la situazione in modo un po’ didascalico. Lui, titolare di uno studio legale, è il principale erede di una porzione di terra che vale una fortuna. La bella cartolina che si ha del posto svanisce quando Matt ci ricorda che anche lì, come in tutti i luoghi del mondo, esistono la miseria, la vecchiaia e la morte. Dipartita alla quale è sfuggita la moglie Elizabeth, vittima di un bruttissimo incidente con il motoscafo, e adesso in coma in un letto d’ospedale. Il rapporto con il marito non era dei migliori, forse i due si stavano lasciando e la fiamma dell’amore non luccicava più come una volta. Matt, sempre troppo impegnato col lavoro, si ritrova a doversi inventare genitore unico e badare alle due figlie.

 

Intorpiditi da prodotti hollywoodiani scarsi, che hanno puntato spesso sulla spettacolarità nascondendo l’imbarazzo di non aver niente da dire, la gentilezza della sceneggiatura di Payne giunge come una panacea necessaria. Non sarà così marcata e coraggiosa come in altri film indipendenti, però ha il pregio di un’onestà che spazza via quasi tutte le granulosità languide e le penose gratuità. Non avrà dalla sua la massima originalità; in compenso regala acuti momenti di vita vissuta, di emozioni con cui tutti, prima o poi abbiamo (o avremo) a che fare. E saper scrivere dialoghi su queste basilari autenticità è un grande merito, nonostante il rischio di approdare a messaggi banali.

 

Tra ciabatte rimediate e corse a piedi nudi, l’avvocato King tallona le sue tre donne. Poi insegue amanti nascosti. E infine i parenti. Robert Forster, in un grandissima parentesi recitativa nei panni rissosi e veementi del suocero, pur apparendo come personaggio secondario, è quello che più di tutti invita a perlustrare la frontiera fra il dispiacere causato dalla possibile dipartita della figlia e la collera che spesso viene riversata proprio verso quel soggetto che sembra volerci strappare gli ultimi brandelli di pace. Beau Bridges è bravo nel ruolo di uno dei numerosi cugini contitolari dei terreni di Matt, mentre Michael Ontkean si fa semplicemente notare in un paio di inquadrature.

 

Insieme alle persone che hanno condiviso la vita accanto a Elizabeth ci sono dei personaggi di contorno, come lo spasimante un po’ salame della figlia più grande, il quale accompagna Matt in una visita all’inizio dolorosa, poi imperturbabilmente sciocca e piacevole, trasformatasi in un road-movie fuori porta, attraverso ricordi che riaprono alcune ferite del passato. La famiglia allargata, disseminata su piccole isole satellite, e riunita al capezzale di una donna forte e indipendente che forse sta per lasciare tutti, fa capolino in una specie di resoconto sociologico modernamente lieve.

 

La prospettiva di lasciarsi per un momento le preoccupazioni alle spalle si risolve in una spiaggia tropicale, una canoa, una coperta per tre mangiando il gelato, e l’idea di un campeggio per chi, ancora piccolo, non ha ancora provato l’ebbrezza dell’avventura: inimmaginabili e decontaminati lasciti. Il Paradiso Terrestre, per ora, può attendere.

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