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War Horse

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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La recensione su War Horse

di lorenzodg
10 stelle

War Horse” (id., 2011) è il ventisettesimo lungometraggio del regista americano di Cincinnati. In un biennio prolifico di riprese e nell’uscita contemporanea negli Stati Uniti (non in Europa) il cineasta è riuscito nell’intento di commisurarsi con la ricerca filmica con un laboratorio fra le proprie mani (“Le avventure di Tintin. Il segreto dell’Unicorno”) e di sviluppare i quadri in immagini con intenti favolistici e meta colorati “War Horse”).

    L’impressione è di una caricatura eccellente è di un cinema lontano nei pensieri e arditamente presente nell’interiorità umana sognando lo sguardo di un bambino e le delicate armoniche vite di un rupestre mondo scomparso nell’intimo ardore della modernità incrinata al sapore di guerriglia smodata di rincorsa allo smog-artificiale e all’oscurità-imbecille. Un fiume di cose. oggetti e suoni che richiamano noi stessi alla povertà immaginifica e al vero sogno filmico: perché per quanto il cinema spielbierghiano (non di quello di Cincinnati in prima istanza) sia esso stesso visualizzato da altri in modo acerbo e poco sincero, rimane un contesto (narrativo e ipertestuale) diversificato, sagace e delirante (nei modi di inquadrature-sinapsi e nelle convenzioni-arcaiche) per quanto mai approssimativo e a metà strada ma sempre (in eccesso) sospeso nel clamore di un precipizio di gusti mescolati e di avvinghiati salubri schiaffi magici (alla mente e all’animo infantile).

    Ecco che all’ennesimo film del regista che predilige il supergusto alle quiete indolenze e l’immagine dentro ai nostri occhi (letterale nel film l’inquadratura scenica su quello che è lo specchio vitreo dello sguardo del regista del cavallo Joey) più che le parvenze piatte di un campo sfiorito, ecco quindi che il menestrello di corte hollywoodiana ricama con trepida attesa (da parte di chi desidera) un piatto saporito e perlato pieno di agognati fantasmi immaginifici. Gli stessi posti e spalmati nel cinema rutilante e fantasioso di qualche pellicola indietro (da “E.T.” a “Always”, da “Jaws” a “I predatori…”). Il cinema di Spielberg rinvigorisce, ampia e iperbolizza l’eccesso narrativo in un connubio immagini-musica da far accapponare l’epidermide. E’ un modo ridondante poco concreto e sapiente alla marca recensiva di lettura semplicistica ma di una strabiliante tendenza virtuosa che è di pochi anzi è un marchio inconfondibile (e inconfutabile) di un regista che paga a caro prezzo il suo gettarsi nella mischia e con generosità sopraffina gestisce e confeziona una pellicola altamente spettacolare e intrisa di gioco di disarmante freschezza. Un mo(n)do quello di Spielberg pieno di spirito sognate che elabora e rimescola ogni gesto della macchina da presa ed ogni suo contatto con l’edificio delle immagini: il virtuosismo intrinseco si snoda e s’allunga su qualsiasi tocco in campo lungo o carrellata, primo piano e gruppo d’insieme. Tutto s’ammanta di una nuvola di effetti umani e di gesta infantili non privi di stilemi assodati e di gestualità oramai rituali. E per’altro ogni tratto e ogni punta di matita cesella un ambiente di incantevole fattura come un proemio ad un romanzo d’epoca invaso di un melò di raffinata arguzia. E lo scodellare il mangiare al cavallo Joey è solo invito allo spettatore rilassato nel lasciarsi trasportare (senza indizi di sorta) alla schiera degli avvenimenti che il dentro sognante ritroverà la via d’uscita (nonostante barriere fisiche e filo spinato) per chiamare la storia minuta con stile meritorio nella fossa di una storia umana con stile distruttivo. Nella trasposizione del libro di Michael Morpugo (edito in Italia da Rizzoli) il regista di Cincinnati s’insinua tra le righe d’inchiostro per liberarle nell’aria inglese  in folgoranti idiomi filmici e mistificanti depositi del cinema che fu: e esalta le conflittualità tipiche del suo fare cinema, l’amicizia, la solidarietà, la famiglia, il conflitto padre-figlio, la guerra e i gesti eroici che valgono una storia di chiunque. E’ sempre, parimenti a gesti risaputi, il vezzo narrativo di un pacifismo mai domo e di una guerra sempre blasfema e opprimente per tutti (i ragazzi appena diciannovenni e le famiglie in attesa). L’asta iniziale e finale per il cavallo Joey è solo caricaturale: non è il prezzo a far alzare il senso immaginifico ma sono le vite e i loro piccoli microcosmi a saggiare il nostro itinerario interiore e a conquistare un prezzo senza rialzo, un piatto di sponda verso un regalo non di denaro ma di amicizia prevista e forse mai realizzata (tra un ragazzo di nome Albert e una ragazza di nome Emilie).

    Il resoconto di ogni parte della storia (tratto da un vero episodio durante la Grande Guerra e scritto in modo sottile e sentito da Morpugo nel 1982, trasportato in teatro e ora al cinema) è sempre diretto, a livello sentimentale, orgogliosamente esemplificato. I toni, parimenti didascalici (per gli oltre evidenziatori di tale arte scritturale) e spiritosi (per gli oltre eccessivi di modi leggeri in ambientazioni cartoonistiche), danno dignità e rispetto di personaggi ingigantiti, allargati e, a dismisura, incantati dal loro stesso ardire in un contesto, volutamente, sinergico tra favoleggiamenti reali e realismi attenuati (non nei fatti) nei gesti e movimenti. Un movimento di macchina da presa che segue l’io spielberghiano in sincronia perfetta (come qualcuno ha fatto notare –Valerio Caprara su Il Mattino del 17 febbraio-) senza tentennamenti e ritorni indietreggianti per vergogna di mostrare l’oltre, un paradigma ingegnoso ben avanti alla lettura delle immagini interposte tra le parti del film, un’ostentazione di gran lunga sapiente e triturante nell’animo, non di Joey e tantomeno di Albert ma del nonno di Emilie che racconta a noi la sua storia (in posto e al posto del papà di Albert) e i suoi sogni (reali) con gusto e sguardo innamorato. Il suo andare via verso il fine primo piano e il lungo inquadrare dà il segno di oltrepassare il confine del suo stesso sogno (irreale) e di assecondare a noi il suo vivere e il mondo (quello di Emilie è fuori, non c’è, è ingrato il suo contatto e il suo mulino forse tornerà a girare in altri modi e in altri sguardi immaginati).

    Certo pieni di amenità immaginifiche e di glamour appesantiti, il nostro (mio) sguardo (interiore) fa fatica, forse non comprende appieno, a sintonizzarsi in modo centrale e non caricaturale sulle onde e i venti ariosi della ripresa (una sola ne comprende un’altra e tutte non sono che una sola macchina da presa) del regista di Cincinnati. Un suo modo di riprendere che è non isolamento ma comprensivo di tanti (forse irrisolti stilemi) ambienti e giardini narrativi. Un quadro in primo piano diventa dà subito un anteposto modo di tagli (di montaggio) avvenuti perché ciascuno cela e ti immerge in tanti nascondimenti irrisolti o in ritrovameenti mai chiusi (come il selciato completo che assiste allo spettacolo iniziale dell’aratura di Joey, come il controcampo della mamma che vede da lontano e poi in un altro quadro si chiude da vicino in camera, come il semicerchio alla prima asta dei cavalli, come l’apertura all’arrivo della cinepresa per incontrare Albert per incontrare Joey, come il fumo epilogo dentro la trincea, come il campo lungo-medio radente prima dell’assalto inglese e come il mulino che gira con le sue pale mentre in istante millimetrico una di esse nasconde la morte di due ragazzi nel campo verde). Tutto il superfluo aggiunto ad ogni puntigliosa inquadratura è nel nostro saper osservare, è nel nostro gustoso iniziare a sfogliare e alla fine è il nostro scrutare l’animo fanciullesco che sta girando intorno al set (alla sua vita e al suo rigoglioso fiore nell’animo delle immagini passate). Il ricordo cela in ciascun quadro delle suggestioni invereconde e distolte, quasi per grazia e anche pudore ci spalancano le ante dei nostri ansimanti sogni e dei vituperati e scandalosi anfratti di vile natura. E ciò che è ne ‘la natura delle cose’ (di lucreziana immaginifica scrittura) il cinema spielberghiano (nel senso lato del termine) ne coglie ogni sfumatura (la chiusura di un cancello), cifra (la quantità del terreno arato), colore (il grano dei campi che nasconde la guerra), amenità (un contorno di un figurante), spalmatura (la luce naturale), facce (i ragazzi testardi alla guerra) e paesaggi (diversificati e baciati). La pittura dell’inizio del secolo scorso trova e si colloca nella bellissima fotografia di Janusz Kaminski (oramai uomo imprescindibile nello sguardo all’unisono col regista) che imprime alla pellicola uno spessore diversificato e una dimensione oliata negli ambienti e ritrovi germinali delle vite moventi lungo il corso delle schermate pittoriche.

    Un film altamente irrisolto nelle storie minute e piccole attorno al cavallo Joey dove il montaggio (censorio del limite superfluo) di Michael Kahn tenta (riuscendoci) di coniugare l’intreccio delle parti e i gusti delle stesse: la pellicola si pone con tre sguardi diversi nell’intento e nei modi. Una prima di apertura ridente e piacente, una seconda carica e spettrale e una terza animata e distesa: tutte riescono a essere a se stanti ma diluite nel tempo e appacificanti con l’intervento conclusivo del montaggio. In esso (tempo) trova giusta sincronia e score mai più azzeccato di John Williams che riesce (alla soglia degli ottantanni) mescolare e interagire con il cinema di Spielberg (che oramai conosce bene come le sue tasche avendo scritto le musiche di quasi tutti i suoi films) con uno stile personalizzato ma vario rispetto all’autore. Un marchio di statura rilevante dove ogni arco, tamburo, tromba si innalzano come le immagini scorrevoli dentro il nostro personale (almeno di chi scrive) sogno dolciastro. Lo score di Williams si pone alla tensione/naturale del regista con atteggiamenti e toni europei (come non seguire il costume irlandese) e modelli risaputi sì ma pieni di vigori nuovi e di sensazioni antiche (vicinanze al mondo western, note forti e decise con musicalità colorate e drammatiche). Una colonna sonora subliminale (nascosta già dai fotogrammi) che fuoriesce con una forza narrativa (a se stante) prodigiosa e incantevole.

    Si deve dire che la produzione ampia e rilevante ha voluto a se i nomi ricorrenti della filmografia del regista: Kennedy e Marshall vogliono pur dire che il sogno di un bambino cresciuto rimane integro e non scalfito e gli amici di percorso si ritrovano per assaporare un cinema vecchio e classico nei modi ma giovane e fresco negli intenti. Un film da aprire con delicata gestualità (come il romanzo di riferimento) e da rinchiudere in un cassetto per farlo riposare e addormentare per farlo rinverdire e germogliare al momento opportuno. Qui non siamo nella ‘terra di mezzo’ ma nella ‘terra di nessuno’ dove solo Spielberg (forse nessun altro) riesce a fantasticare e inquadrare l’imponderabile sogno umano. Si legge che la furberia-retorica colpisce ancora per un introito facile ma poi si legge ancora che la noia pervade la pellicola per un incasso succulento difficile (oggi in una recensione senza firma in un quotidiano –poche battute per dire poco di un film-), senza sapere che negli States “War Horse” e “TinTin” hanno portato cifre ‘irrisorie’ rispetto alle produzioni rilevanti e ai set proposti (il totale dei due si aggira sui centocinquamilioni di dollari che per Steven sono pochissimi).

    La storia del cavallo Joey che viene acquistato da Ted Narracott (Peter Mullan)  padre di Albert (Jeremy Irvine) a un’asta pubblica in un piccolo villaggio del Devon (Cornovaglia) per trenta ‘monete’ riesce a far intenerire il cuore del figlio ma meno quello della moglie Rose (Emily Watson) che invece pensa al futuro della casa, ai pochi soldi e all’affitto da pagare. Il cavallo diventa amico di Albert e l’aratura del campo impossibile (pieno di pietrisco e poco fertile) danno a Ted la possibilità di avere un raccolto di verdure. Nonostante tutto ciò vende il cavallo alle truppe inglesi per la guerra imminente (siamo nel 1914) mentre il figlio riesce a parlare con il capitano Nicholls dell’esercito inglese (Tom Hiddeston). Il ragazzo ancora non in gradi per l’età riesce ad arruolarsi volontario per essere vicino al suo Joey che segue diverse peripezie fino a incontrare il sergente tedesco Sam Perkins (Geoff Bell). Il cavallo si affeziona a due militari (Gunther e Michael) che fuggono con un altro puledro e si ritrovano in un nascondiglio di un terreno di un francese nonno (Niels Arestrup) di Emilie (Celine Bickens). I cavalli vengono nascosti e un mulino fa da grande sogno di Emilie ma l’esercito tedesco ritrova i militari (disertori) e i cavalli. La loro vita è appesa a un filo. Ma ecco che Albert oramai sul fronte e valoroso combattente all’epilogo della guerra (1918) ritrova per caso il suo Joey che invece di essere abbattuto (perché malandato e malato) viene ripreso dal ragazzo. L’asta finale dei cavalli dell’esercito inglese dirà l’ultima sul suo futuro proprietario: che dire che una sorpresa diverrà cara ad Albert (che nonostante la cifra raccolta dai suoi amici) non riuscirà nell’intento iniziale. Ma è pur vero che il sogno si racconta tramite i nonni e i padri aspettano sempre un arrivo insperato.

    Il cast del film è presente in tutto ma la sincronia energetica dell’inquadratura spielberghiana (in toto) segue passo passo l’imponderabile cavalcata e ridà sensazioni nuove a tutti i partecipanti al giro avventuroso. Tutti gli attori compaiono e ricompaiono con intelligenza raffinata e ciascun piede e fango, come sguardo e lacrima si permeano nei colori attenuati e nelle figure di ogni umana comprensione. Un calco forte e impressionante dove Spielberg non toglie mai l’acceleratore, tutto d’un fiato percorre, segue e rilascia lo sguardo di un animale tra i tanti (al fronte) e il segno amichevole di un ragazzo (tra i tanti partiti al fronte) tra i pochi tornato in casa tra le cavalcate arrossate di un cielo meriggiante che folgora e imprime le silhouette dei genitori col proprio figlio. Il cinema di Spielberg riassapora quello dei padri veri (Ford in primis) e ne inarca le aspettative con mastodontiche figure ritagliate nel tempo: un taglio che chi vuole può fare proprio per alimentare un corso di sensazioni e di umori ancestrali. Il tempo dei ‘furori’ agonostici dove la famiglia, il suo giogo e la sofferenza si calano con ardore e si intagliano nell’immagine di tutti quanti noi.

    Restano impresse i visi e le storie del capitano Nicholls: un bravissimo Tom Hiddeston;  e del nonno di Emile (Niels Arestrup) che riesce a ritagliarsi un ruolo e un ricordo particolare. Si deve dire che Ted Narracott interpretato da Peter Mullan , è solo uno di quei personaggi secondari (in tanti classici film del passato) che Spielberg disegna con giusta misura: il meno di tutti ha un’inquadratura finale (degna di questo nome) e l’uomo generico (e perdente) ha la sua grande dignità di comparire e di non compiangersi (non l’uomo tranquillo fordiano ma un uomo assopito dai ricordi e cadente nelle avversità vissute). Il sogno americano dei padri (cineasti) e dei mondi in partenza (in un orizzonte di avvedute ‘glorie’ sociali) si perde e si annulla in un quadro finale di rara tristezza (ai meno intrisi di memoria parrà esattamente l’opposto)

    La regia di Spielberg è calligrafica e ardimentosa, ariosa e tenace: tutto come al suo solito (tiene in pugno la scena e i suoi contorni come pochi).

    Voto: 9/10.

 

 

 

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