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The Artist

Regia di Michel Hazanavicius vedi scheda film

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La recensione su The Artist

di LorCio
7 stelle

Lo scompiglio creato nel frangente del passaggio dal cinema muto a quello sonoro è stato già magnificamente raccontato in uno dei più memorabili musical di sempre, Cantando sotto la pioggia. Il tema e il contesto storico vengono ripresi da Michel Hazanavicius in quello che da più parti è stato definito uno dei migliori film dell’anno. Probabilmente il motivo principale dell’entusiasmo generale è legato al suo essere un magnifico esercizio di stile che rievoca con filologia, perfezionismo e scrupolo un’epoca irriproducibile per una infinità di spiegazioni che si riduce tutta al semplice trascorrere del tempo.

 

 

Si potrebbe stare ore a rinvenire come in un baule riaperto dopo ottant’anni i riferimenti, le citazioni, i rimandi a quel cinema dominato dalla mancanza della parola (uno per tutti: l’ingresso all’ufficio del capo analogo a quello in cui Buster Keaton entra in Il cameraman), a celebrare gli omaggi a Chaplin, Mary Pickford (di cui vediamo il letto), Mack Sennett e via dicendo, ma sono giochi cinefili che interessano fino ad un certo punto.

 

 

Il vero punto di forza di The Artist sta in due elementi dell’opera studiati con cura ed approfondimento: la rappresentazione di un’epoca che passa dalla scintillante normalità di un intrattenimento di massa dietro cui si muove un mondo barocco e di per sé irraggiungibile (il cinema muto) alla sensazionale novità di un fenomeno misterioso ed irresistibile che ha dovuto sostituire il vecchio col nuovo con malinconica crudeltà (il cinema sonoro); e quel vecchio, incarnato dal divo del muto George Valentine, che non sa e non vuole parlare sul grande schermo e per questo abbandonatosi in uno stato di sconfortante ed alcolica tristezza, incapace di reagire e di adeguarsi al futuro che diventa presente.

 

 

A questo proposito risulta emblematico il colpo di genio dell’incubo in cui gli oggetti fanno rumore cadendo dalle mani di George, che anche nella vita comune mantiene le stesse smorfie e gli stessi atteggiamenti che ha nei film. È il ruolo della vita di Jean Dujardin, attore e comico d’oltralpe, che se la cava splendidamente alle prese con un personaggio complesso e mai banale, attraversato da una vasta gamma di emozioni che non si limita ad una scorta di lazzi e moine patetici o caricati.

 

 

Non gli è da meno Bérénice Bejo, così come meritano un sacco di elogi il benritrovato John Goodman e l’affidabile James Cromwell, ma il migliore in campo è decisamente lo strepitoso cane di George, che penso sia in grado di impartire lezioni di recitazione a moltissimi attori. Film muto girato ai tempi del sonoro con gli stilemi del muto (un bianconero antico e multiforme) e la consapevolezza storico-tecnica del sonoro (cioè del presente che non è più futuro, in mano al 3D e all’effettistica speciale), è lo sfizioso quanto scontato (e anche ruffiano) recupero di qualcosa di lontano ed affascinante, ammirevole e strabiliante quanto perfettino ed ovvio, ma va bene così (a grandi linee).

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