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Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film

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La recensione su Drive

di PompiereFI
6 stelle

Un giovane senza nome si interessa al basket NBA. E non per ragioni sportive. Lo Staples Center di Los Angeles, città con oltre 100.000 strade, è un ottimo rifugio per confondersi con i tifosi all’uscita della partita e per sfuggire agli inseguimenti della polizia. Il mestiere scelto dal trentenne dalla faccia pulita è piuttosto complicato: un driver, ovvero una specie di taxista in appoggio a rapinatori che da soli non saprebbero come fuggire col bottino, e allora richiedono le sue prestazioni. Anonime (perché usare tutte le volte un cellulare differente quando il lavoro sporco lo si fa senza coprirsi il volto?), silenziose (il Nostro non parla mai), chirurgiche (cinque minuti esatti è il tempo concesso per l’attesa in auto, prima della sgommata di congedo).

Lo chauffeur compassato (che per comodità di scrittura chiamerò Ryan, come l’attore che lo interpreta) non appartiene a nessuno. Il volto rasato al culmine del disincanto lo pone, socialmente accettabile, come meccanico in un’autofficina, alle dipendenze dello sciancato Shannon (Bryan Cranston), una sorta di padre putativo pronto a difendere Ryan e a sostenerlo con i mezzi che ha a disposizione. Le auto permettono piccoli lavori di arrotondamento, come lo stuntman nelle più pericolose scene di inseguimento dei film, o il pilota nelle corse da competizione.

Cranston è l’attore dal valore aggiunto: il suo personaggio dall’indole protettiva e complice è intrinsecamente legato alle più chiare chiavi di lettura simboliche del film. Gravitano intorno al suo territorio un ritrovato Albert Brooks in un ruolo ingrato, una solare Carey Mulligan molto impegnata a togliersi il ricciolo dall’orecchio, e Ron Perlman nel ruolo di Nino, l’ovvio proprietario di un’ovvia pizzeria con tanto di foto della Torre di Pisa (?).

Perlman, magnifico volto gibboso medioevale, si affanna mentre sgomita nel tentativo di trovare un posto al sole nell’odierna cinematografia. Quasi mai gli sono stati affidati ruoli degni di uno spessore tale da essere preso in considerazione. Anche qui sorge il dubbio sull’opportunità di inserirlo nel cast: le sue apparizioni sono poche, e comunque troppo sopra le righe, come se il personaggio si fosse fatto attore scalmanante, con la voglia di ritornare alla nostalgica e splendida penitenziagite dolciniana.

Oltre alla Torre, a pendere è il magnifico antefatto thriller. Dopo un’introduzione da manuale, ottimamente misteriosa, asociale, con tanto di lusinga verso imminenti propositi nevrotici e squilibrati, ecco l’entrata in scena della bella Irene (Mulligan). La quale apre a lunghi silenzi fatti di sguardi, mezzi sorrisi, musiche adulatrici in sottofondo. C’è un’inattesa impronta più sentimentale che maledetta, un tono più da commedia che da noir, più da famiglia di fatto che da misfatto. Poi, l’ulteriore avanzamento emotivo costruito sullo schema conflitto-concordia-conflitto. Squarci di romanticismo illuminato da luci soffuse, dentro un auto così come a un appartamento, o a un ascensore infido.

È anche per questo che l’esplosione di violenza arriva un po’ così, come fortuita. Una sorta di sollecitazione dell’estetica veemente, in perfetto e gratuito linguaggio barbarico. Refn tenta di rassicurarci che è tutto sotto controllo, inquadrando ambiguamente una faccia piena di sangue illuminata da un raggio di sole. Ah, il romanticismo devastato dall’orrore improvviso… Si potrebbero scrivere interi tomi sull’argomento, tanto il cinema ha abusato (molte volte anche con risultati maiuscoli) di questa suggestione.

La verità è che sono lontani i crani sfondati dal cuore selvaggio di Sailor. A lui non si può rubare la giacca in pelle di serpente sperando di fare il duro con uno scorpione spuntato sul retro della casacca. Almeno non senza ricorrere al grottesco, all’umorismo, a temi portanti come la conquista della sessualità o ad altri segni distintivi della personalità. Refn non crea un mondo proprio, individuale, a sottolineare la possibile autorialità di chi si vuol distinguere dalla massa. E confeziona inutilmente una serie di lirismi dell’ultimo minuto, rigorosamente al ralenti (non sia mai che lo spettatore non abbia il tempo per una premura tardiva), in un processo di standardizzazione metafilmico (con tanto di ritorno alla maschera indossata sui set) non rassicurante, certo, ma prevedibile e perfino un po’ vigliacco.

Vorrebbe rendere angoscianti i suoni e i rumori, prediligendo le atmosfere e le riprese notturne di scorsesiana memoria: ma il retroterra di Ryan non è quello di Travis. Nessuna demonizzazione politica, nessun Vietnam a traumatizzare la mente, a offendere gli occhi con la luce degli abbaglianti, dei neon e dei lampioni. La supposta discesa agli inferi si tramuta in un action intermittente, un fascio di luce di un faro automobilistico o marittimo, in una rincorsa nella notte per vedere chi è capace di tamponare per primo: “Last & Furious” con sottofondo ipnotico anni ’80.

Come già visto nelle sue precedenti opere, gli eroi criminali con la faccia scoperta non possono esistere: sono fuori dalla società, dalla vita affettiva, da una qualsiasi apertura conciliatoria. Sono chiacchere senza distintivo; che Refn se ne faccia una ragione. È in questo modo che, guidando egregiamente la macchina (da presa), arriva al capolinea cinematografico. Si pregano i signori viaggiatori di scendere.

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