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Miracolo a Le Havre

Regia di Aki Kaurismäki vedi scheda film

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La recensione su Miracolo a Le Havre

di pazuzu
8 stelle

A quasi vent'anni da La vie de bohème Aki Kaurismäki torna a girare in lingua francese, e lo fa ripartendo da dove s'era fermato: ovvero da Marcel Marx, il bohémien interpretato da André Wilms che nel film del 1992 ispirato al romanzo di Henri Murger viveva di stenti, lui uomo dalla grande cultura, scrittore snobbato da editori superficiali, e soprattutto teorico e pratico di uno stile di vita anticonformista, geloso della propria libertà ed allergico ad ogni forma di controllo od imposizione.
Quello che giunge a Le Havre, località portuale sita in Normandia e snodo cruciale per il transito delle merci da e per la Gran Bretagna, è un Marcel Marx 'cresciuto', che sta cercando di mettere la testa apposto, che si è sistemato con una forestiera (Arletty) che l'ha raccolto per le strade di Parigi e l'ha sposato, che ha accantonato i sogni d'artista e s'è scelto un mestiere tra i più umili (ma - a parer suo - assieme a quello del pastore il più vicino al popolo), quello del lustrascarpe: privo di una qualunque sede, egli vaga ogni giorno tra la stazione ed i marciapiedi delle vie più commerciali portando con sé uno sgabello una spugna e un po' di lucido, dividendosi il lavoro ed il territorio con il giovane collega Chang, un immigrato clandestico vietnamita che s'è reinventato cinese per sopravvivere. Appena può si ferma al bar gestito da Claire, alla panetteria di Yvette, oppure alla frutteria di Jean-Pierre, con i quali ha conti aperti che chiuderà quando riceverà una misteriosa eredità. Poi, ogni sera, al ritorno a casa consegna alla moglie il denaro guadagnato, onde evitare di sperperarlo come faceva un tempo, ricevendone indietro solo una piccola parte per l'aperitivo. Arletty, dal canto suo, fuma di nascosto da lui, e di nascosto si contorce per non farlo accorgere del male che la sta spazzando via. E proprio mentre le sue condizioni peggiorano costringendola al ricovero in ospedale, una nuova luce giunge ad illuminare a lui il cammino, una nuova opportunità per sentirsi utile e buono: è un ragazzino sui dodici anni con la polizia alle costole, si chiama Idrissa ed è scappato da un container, viene dal Gabon e vuole raggiungere la madre a Londra. Così, mentre i quotidiani locali si interrogano se sia armato od abbia legami con Al Qaeda, e nonostante il sobrio commissario Monet dimostri di muoversi da subito nella direzione giusta, Marcel percepisce la sua fame e la sua paura, e con l'ausilio della gente del posto cerca di aiutarlo ad ottenere ciò che desidera, arrivando ad organizzare un concerto di beneficienza allo scopo di garantirgli i soldi necessari all'imbarco.
Quello mostrato da Kaurismäki è un mondo sospeso popolato da reietti che nelle difficoltà trovano la forza di sostenersi l'un l'altro, e Le Havre è la messinscena di una loro utopica rivincita, che trova l'esaltazione in un finale volutamente irrealistico e fiabesco: perché Le Havre è una favola smodatamente ottimista in cui la solidarietà è il carburante attraverso cui gli ultimi tentano la riscossa, in cui da un male incurabile si può guarire anche in pochi secondi mentre un ciliegio dato per morto ritorna a fiorire, e in cui ad un migrante è permesso di fuggire grazie ad agenti di buon cuore che non chiedono nulla in cambio.
Seppur assolutamente godibile, piacevole, e venato della consueta impagabile leggerezza, Le Havre è però un Kaurismäki minore, e segna un passo indietro rispetto non solo alle ultime uscite del regista ma anche al già citato illustre predecessore. Saranno il ricorso a dialoghi talmente semplici da apparire talvolta didascalici e la parziale rinuncia al surrealismo (da sempre elemento fondante della sua poetica) a disinnescare in parte il lirismo delle immagini, e sarà la scelta (legittima) di calare il racconto nell'attualità a far in parte rimpiangere il Marcel Marx bohémien, quello che si muoveva nei sobborghi di una Parigi sospesa e kafkiana (lo stesso autore ceco è qui citato esplicitamente in una delle scene migliori). Perché laddove prima il contesto (fotografia, ambientazioni, atmosfere) bastava da solo a riempire letteralmente la scena grazie proprio a quella certa indefinizione di fondo, qui si avverte il bisogno di quel quid d'azione (da intendere in senso lato) a dar spessore ad un complesso, seppur particolare, meno potente ed autonomo.
Tra gli attori, tutti rigorosamente sotto le righe, oltre al già menzionato André Wilms nel ruolo del protagonista e a Kati Outinen, musa del regista, in quello di Arletty, vanno sottolineate le presenze di Evelyne Didi e Jean-Pierre Léaud, che tornano dopo La vie de bohème ma nei panni di nuovi personaggi (lei è la gentile amica Yvette, lui un vicino delatore che prova a più riprese a far arrestare il ragazzo). Una nota a margine merita poi Little Bob, al secolo Roberto Piazza, cantante italo-francese nativo di Le Havre e fenomeno musicale autoctono in pista da oltre trent'anni, a cui Kaurismäki concede il proscenio per qualche minuto per una gustosa esibizione in chiodo rosso e capelli bianchi. ***½

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