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Terraferma

Regia di Emanuele Crialese vedi scheda film

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La recensione su Terraferma

di lao
8 stelle

QUALE ITALIANO?
“Non sai neppure l’italiano” dice sconsolata la madre vedova, Giulietta ( Donatella Finocchiaro), al figlio adolescente Filippo ( Filippo Pucillo), pescatore  per nulla scolarizzato, più a suo agio con gli animali che con le persone.  Il ragazzo conosce esclusivamente il microcosmo dell’isola dove è cresciuto, inesistente sul mappamondo, ma  gli è bastato per comprendere che di italiani ce ne sono molti, ciascuno si è scelto, consapevolmente o meno, il suo,  e che anche per lui arriverà il momento di scegliere.
 Lo zio Nino ( Giuseppe Fiorello) ha intrioettato gli slogan divulgati dalla finta modernità della pubblicità e della propaganda politica: il progresso per i molti come lui è il profitto a scapito delle leggi millenarie della natura. Le parole usata dalla coetanea milanese Maura e dagli amici di lei, a cui Filippo e la madre affittano la casa,  portano il sapore delle realtà più avanzate del Paese, la metropoli e la provincia ricca: “topless”, “aria condizionata” “vista mare” ecc. Ci sono infine gli imperativi categorici utilizzati dai  rappresentanti dello Stato per imporre divieti e regole dall’alto: non raccogliere i clandestini per mare, non portare i turisti in barca senza permesso.
 Esiste però un idioma opposto, più puro, non fatto solo di parole, neppure scritto,  dettato a uomini e donne dal mare e per questo non suscettibile di essere standardizzato: è il dialetto arcaico dei pescatori, del vecchio Ernesto ( Mimmo Cuticchio), il quale, come un eroe tragico, trasgredisce gli editti dello Stato in nome della legge universale della pietas, che comanda di non abbandonare nessuno in mare. Appartengono al medesimo codice arcaico le invocazioni disperate di aiuto dei naufraghi, in fuga dalla guerra e dalla miseria, il flebile “ grazie” sussurrato dall’etiope Sara ( Tannit) a Giulietta.  Anche il legame affettivo che unisce madre e figlio rifiuta le espressioni artificiose dell’omologazione televisiva: entrambi, come i clandestini, aspirano a una terraferma, ossia a un altrove.    A Filippo non è consentito più restare  nel limbo di una fanciullezza  appartata sull’isola:  il luogo paradisiaco e primitivo del mito viene travolto dall’orrore della Storia ed egli sente  il dovere etico di una libertà responsabile: “voglio essere libero” dice infatti a Maura, un attimo prima di respingere l’orda di disperati che assale la sua barca per trovarvi la salvezza. E’ il primo drammatico atto di una coscienza che bruscamente, forse troppo,  trova uno spiraglio di luce per preservare se stessa.  E alla fine Filippo capisce quale sarà il suo  italiano,  la “dolce favella” dei versi immortali dell’esule Dante:  “ quanto sa di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale “. Ma nessuno glielo dirà mai. Intanto lo zio fa ballare i turisti sul battello al suono di “Maracaibo” e a chi importa più?  Per confronti e percorsi culturali suggeriti dal film cfv mio blog: http://spettatore.ilcannocchiale.it/post/2676450.html

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