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This Must Be the Place

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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La recensione su This Must Be the Place

di lao
8 stelle

I CIELI TERSI D’EUROPA

Quando la rockstar Cheyenne ( Sean Penn) arriva negli States in occasione della morte del padre ne trova il diario, ne legge alcune pagine e le parole gli riecheggiano nella mente a lungo, mentre viaggia intenzionato a vendicarsi dell’ufficiale nazista ancora vivo che l’ha oltraggiato quando era deportato in un campo di concentramento:  prima dell’inferno  c’era la spensieratezza,  la coperta calda quando si ha la febbre, l’angolo della finestra, le carezza della madre, il cielo terso dell’Europa, questo ha lasciato scritto, forse pensando a lui mai più rivisto da quando adolescente era andato via di casa. E  il cinquantenne cantante, idolatrato un tempo dal mercato, lo  sa bene:  la maggior parte degli uomini la spensieratezza non l’ha mai conosciuta o l’ha dimenticata. Egli si è esiliato da decenni dalla scena e vive in Irlanda  l’esistenza desolata da miliardario disoccupato e annoiato, fra piscine senz’acqua, pasti precotti sotto il neon di un algida cucina da riviste d’architettura, visite alla tomba di due giovani fan suicidi, e  giornate da riempire in qualche modo. Fa visita a un’anziana donna che piange per il figlio scomparso, fa da pronubo inutilmente a un ragazzo e a una ragazza tristi, ascolta le performance erotiche di un amico, ama probabilmente riamato una moglie che di lavoro fa il pompiere. Tuttavia la sua figura di pagliaccio stralunato, se la si osserva dal di fuori e nell’intimità, non pare abitare  verosimilmente questo mondo: un trucco eccessivo gli invecchia grottescamente il volto, il tono di voce, esile, lento, assomiglia al lamento dell’agonizzante, e la sincerità estrema di ciò che dice gli conferisce l’innocenza del bambino. Eppure nel suo trascinarsi dietro un’immagine di clown dolente Cheyenne si rivela di una nudità intima disarmante: egli in tutto il suo essere è   l’espressione esasperata di una verità incontenibile e ribelle a un  mondo dove ogni cose si attutisce nella mediocrità asettica delle apparenze.  Ma chi è allora Cheyenne o piuttosto quale maschera Sorrentino e il cosceneggiatore Contarello hanno voluto far indossare a Sean Penn? Un artista bizzarro e capriccioso, un caso patologico condannato dalla nevrosi a un’infanzia protratta, un novello Ulisse in cerca di una patria smarrita, un cantante fallito tormentato dal rimorso?  In “This Must Be the Place” di fatto  l’itinerario conoscitivo dello spettatore coincide con quello del protagonista:  Cheyenne è prigioniero della volontà di autopunirsi  per essere stato un artista senza etica, una cattivo maestro per molti giovani vittime dei suoi testi incensato  a  torto dalla moda; ed è  il rimorso nei confronti di un padre non più cercato   a spingerlo fuori dall’involucro protettivo di se stesso e a guidarlo in un’Odissea attraverso un continente vasto e sconosciuto.  Sulle tracce del carnefice nazista egli scorge appena un frammento di una terra sconfinata ma gli basta per comprendere che il fulcro dell’esperienza umana, la sua come quella di qualsiasi altro, è il dolore. Non vi sono mostri a  guardare la neve al di là del filo spinato di un lager e a immaginarsi un Dio indolente e assente come una donna mai vista e sognata; c’è però la dignità umiliata di una vittima e il gesto inconsulto di un soldato sciocco. E allora per riscattare l’umanità dalle infinite colpe non serve la vendetta, bensì la memoria e la coscienza. Nella maturità etica conquistata da Cheyenne Sorrentino precisa la sua poetica:  non esiste altro  sotterfugio alla pena del vivere e alla spensieratezza rubata a noi tutti, ieri e oggi, sotto i cieli tersi d’Europa. Per confronti e percorsi culturali suggeriti dal film cfv mio blog: http://spettatore.ilcannocchiale.it/post/2688299.html

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