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Carnevale di anime

Regia di Herk Harvey vedi scheda film

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La recensione su Carnevale di anime

di spopola
8 stelle

Il film è la dimostrazione pratica che se si possiedono solide idee, i risultati possono essere soddisfacenti anche con pochi soldi, sicuramente più intriganti di quelli offerti da molti horror della nuova generazione, che si reggono solo sugli effetti speciali resi possibili da adeguati budget, ma incapaci di mascherare la pochezza dell’insieme.

Intendo ovviamente parlare dell’originale, girato nel 1962 a firma  Herk Harvey, non certo del brutto (e insulso) rifacimento malamente aggiornato ai tempi della contemporaneità realizzato nel 1998 da Adam Grossman  sul quale non vale assolutamente la pena di soffermarsi (ennesima conferma che soprattutto al cinema, non sono tanto le storie ad essere importanti, quanto invece il modo in cui queste vengono portate sullo schermo). E’ infatti  la capacità anche visionaria del regista e del suo entourage a fare la differenza, a creare le giuste suggestioni e a mantenere alta l’ansiogenesità del ritmo dall’inizio alla fine anche nel dosare gli indispensabili colpi di scena finalizzati a confondere le presunte certezze acquisite dallo spettatore e che rimettono di nuovo tutto in discussione, scombinando i pezzi del puzzle faticosamente messi insieme da chi osserva dalla sala, qualità davvero fondamentali in un genere come l’horror, soprattutto quello della piccola nicchia che rifiuta la facile effettistica e prova invece a terrorizzare utilizzando armi più sottili e tortuose che definirei “emozionali”, giocando di conseguenza le proprie carte sui condizionamenti emotivi del “non detto”, del supposto, che stimolano l’immaginario più di ogni altra cosa).

Carnevale di anime (Carnival of Souls in originale) è dunque in questo senso la dimostrazione pratica facilmente verificabile sul campo, che se si possiedono solide e strutturate idee di “rappresentazione delle cose”, i risultati possono essere soddisfacenti anche con pochi soldi, sicuramente più intriganti di quelli offerti da molti horror della nuova generazione, che si reggono solo sugli effetti speciali (anche “splatter”) resi possibili da adeguati budget, insufficienti però a coprire la mancanza di un’ispirazione genuinamente feconda spesso latitante, e conseguentemente incapaci di creare l’angosciosa suspense che invece possiede questo piccolo grande film che, senza il bisogno di spargere nemmeno una goccia di sangue, riesce a  tenere incollato alla poltrona lo spettatore (letteralmente col fiato sospeso) e a renderlo direttamente partecipe di quell’inquietudine che attraversa tutta la pellicola atta a determinare l’accelerazione dei battiti cardiaci e a mettere in movimento quel sottile scombussolamento interno che potremmo definire di terrore dell’inconscio che genera quei genuini “brividi di paura” che come ben sappiamo - li abbiamo provati tutti in più di un’occasione - fanno letteralmente “accapponare la pelle”.

Carnevale di anime centra perfettamente questo non sempre facile obiettivo, e lo fa  nonostante i limitati mezzi (non solo economici, ma anche tecnici) a cui accennavo prima, dovuti a uno stanziamento finanziario ridottissimo (soltanto 33.000 dollari messi a disposizione da una piccola produzione indipendente), sufficiente però per consentire a Harvey[1] di  portare a termine questo gracile, prezioso gioiellino in banco e nero che sebbene abbia avuto a suo tempo una distribuzione più che limitata e un’accoglienza sostanzialmente negativa (soprattutto negli incassi) salvo che nei drive-in dell’epoca, si conferma ancora oggi e nonostante una trama abbastanza semplicistica, ma piena di stimolanti novità se si considera l’anno un cui è stato concepito (anche su questo versante si può dire che a suo modo ha fatto davvero “storia”), la scarsa notorietà di un regista che ha lavorato soprattutto nel teatro e che “cinematograficamente parlando” è rimasto, suo malgrado, l’autore di questa sola opera “di finzione” (interpretata per altro da attori altrettanto “sconosciuti” a partire dall’ottima protagonista Candace Hillgoss che, costantemente alle prese con le sue visioni macabre, ce la mette tutta - forte della tecnica acquisita alla scuola di Lee Strasberg - per rendere veritiera  la sua estraneità emotiva e percettiva alla evanescente realtà che la circonda) un ottimo prodotto del cosiddetto “cinema di serie B” che si è lentamente (e giustamente) ritagliato uno spazio importante diventando un piccolo, prezioso cult del genere fantasy-horror d’atmosfera (peccato che in questi ultimi tempi sia stato meno “frequentato” che in passato e che di conseguenza sia poco conosciuto dalle nuove generazioni).

 

La storia

 

A causa di un incidente, una macchina con tre ragazze a bordo precipita nel fiume. L’unica a riemergere dalle acque praticamente incolume, è un’organista (Mary) che nell’incidente ha comunque perso la memoria e si trova soggetta a continui sbalzi di umore che alterano notevolmente le sue percezioni. La ragazza, rimessasi dallo shock, decide così di trasferirsi nello Utah dove potrà svolgere la sua attività di musicista  suonando l’organo per la chiesa locale. Giunta a destinazione comincia però a soffrire di inquietanti allucinazioni: un uomo dall'aspetto cadaverico, una specie di spettro-zombi invisibile ad occhio nudo, sembra infatti spiarla e seguirla ovunque vada. Da questo momento in poi, la ragazza sempre più turbata, passa da crisi isteriche più o meno accentuate, a periodi in cui  perde la facoltà uditiva restando chiusa nel suo mondo astratto, e diventa persino invisibile alle persone che la circondano. In questo stato quasi catatonico, l’attrazione fatale per la struttura di un luna-park dismesso la porterà lentamente verso l’allucinato finale.

 

Il film

 

La fonte ispirativa è ancora e sempre quella del cinema di Val Lewton e del suo personale modo (anche “economico”) di intendere l’horror. Encomiabile l’impegno di Harvey  (e di altri registi del periodo: Wise e il suo magnifico Gli invasati; Curtis Harrington e Night Tide) nel provare a mantenerlo attivo con veri e propri “omaggi” risolti peraltro in maniera molto personale, anche in un periodo in cui il genere si stava invece orientando verso modalità di rappresentazione più “veritiere” e palpabili, con l’ignoto che cominciava a palesarsi sempre più realisticamente (che lentamente, ma progressivamente e dopo periodi particolarmente “fastosi” come risultati raggiunti soprattutto negli ultimi decenni del secolo passato, ci hanno poi portato a un oggi che – fatte salve le dovute eccezioni – risulta invece abbastanza desolante nel suo insieme e spesso più “disgustante” per le immagini che mostra, che veramente e genuinamente impressionante).

Come si è già detto, la protagonista della storia è una suonatrice  d’organo che, dopo un incidente d’auto nel quale sembra essere la sola a non averci  lasciato le penne, comincia a provare un senso di inquietudine crescente acuito da una  serie di visioni macabre che appaiono minacciose all’improvviso riflesse sui vetri e negli specchi  (soprattutto una figura cadaverica interpretata dal regista stesso) che la perseguitano e la terrorizzano, talmente tanto, da generarle un profondo senso di disagio sia dal punto di vista emotivo che da quello percettivo, che la portano ad estraniarsi sempre più dalla vita, come se quello che le sta accadendo intorno non la riguardasse, a un punto tale che in alcuni momenti determina addirittura un vero e proprio cortocircuito “dissonante”: lei non riesce a percepire i suoni che la circondano, e contemporaneamente anche le persone che  incontra., sembrano non accorgersi della sua presenza, come se  fosse diventata invisibile. La spiegazione (che nel film è solo suggerita, lasciata in buona parte all’interpretazione intuitiva dello spettatore è – soprattutto oggi – abbastanza prevedibile, quasi scontata poichè anticipa e precorre quelle già mostrate da tanto cinema che è venuto dopo come quella - citata solo a titolo di esempio fra i tanti che potevo prendere in considerazione - utilizzata da Amenabar per il suo ben più recente e altrettanto riuscito The Others.

Scontata dunque e nemmeno più tanto sbalorditiva, ma non per questo ancora oggi meno inquietante, e il merito come si è detto, sta tutto nella forma sorprendentemente matura, nello “stile” con cui ci viene narrato questo racconto soggettivo fatto di atmosfere torbide, quasi morbose, sospeso in una specie di limbo fluttuante che genera quel progressivo isolamento sensoriale frutto forse dell’ipotetica follia degenerante di una mente tormentata da angoscianti interrogativi esistenziali che sfociano spesso in oniriche digressioni di fortissimo impatto, e tali da rendere la ragazza estranea persino a se stessa, mentre tutto intorno a lei si fa sempre più “terra bruciata”.

Non ci sono personaggi positivi in questa storia: tutti, dal primo all’ultimo, sembrano  nascondere qualcosa, avere un lato oscuro da celare, un altro elemento fortemente distintivo che mostra quanto il regista sia stato bravo a mettere in pista spesso sottotraccia, ulteriori “tracce” altrettanto  disturbanti atte ad evitare che il racconto si esaurisca (e si appiattisca) nella solita storia  un po’ consunta ed abusata della giovane e bella ragazza inseguita (e perseguitata) da un mostro.

Ed ecco allora il viscido vicino di casa (altrettanto “minaccioso”) interpretato da Sidney Burger, o il sotto-tema della “non credente”  punita dagli incubi che la perseguitano per aver “osato” suonare l’organo  in chiesa ed averla  di fatto quasi profanata, o il mistero del luna-park abbandonato (sul quale tornerò a parare più avanti).

Come si sarà ben capito insomma, le suggestioni e i meriti, il coinvolgimento dello spettatore di questa  storia minimale  sostanzialmente povera di dialoghi e di avvenimenti, vero e proprio incubo ad occhi aperti, stanno tutti nella messa in scena, nella paranoia che attanaglia la brava protagonista, nell’inesorabilità che avanza  scandita dalle sue “visioni” sempre più coinvolgenti e “reali”,
nella particolare atmosfera angosciosa e ipnotica dell’insieme. Il tutto, ben sostenuto e amplificato dall’uso delle musiche per organo davvero suggestive (l’ottima colonna sonora è opera di Gene Moore) perfette per sottolineare il clima  fortemente ansiogeno della rappresentazione, oltre che dalla fotografia che fa largo uso di immagini gotiche che rimandano direttamente all’espressionismo e indugiano spesso su acque e specchi rifrangenti (un formidabile bianco e nero molto contrastato che gioca mirabilmente con i chiaroscuri, opera di Maurice Prather).

Ma un altro elemento di sicura presa (e a mio avviso anche il più evidente punto di forza che regge meglio di ogni altro il passaggio del tempo), è proprio quello dell’ambientazione (grazie anche a una cinepresa capace di farcela percepire - in particolare nelle scene girate al luna-park - ancora più straniante e onirica dalla velocizzazione imposta in alcune sequenze, ai fotogrammi).

La grande costruzione abbandonata già sede di un imponente parco di divertimenti del quale mantiene le strutture ormai un poco fatiscenti,  è la giusta, inquietante cornice per rendere ancor più ansiogeni  gli spostamenti  quasi stralunati della ragazza che si aggira traballate e incerta, come attirata da una calamita, fra giochi ed attrazioni gigantesche da tempo fuori uso. Ed è proprio lì, in quel luogo sinistro, che nel bellissimo finale l’incubo troverà una sconvolgente catarsi (attenzione: SPOILER) quando dalle acque prospicienti, affioreranno e prenderanno forma le creature dell’oltre tomba, i morti che si dirigono verso di lei, la raggiungono per coinvolgerla in un ballo grottesco e macabro al tempo stesso, e poi implacabili la inseguono per ghermirla sulla spiaggia.

 

[1] Herk Harvey (1924-1996) è stato un importante uomo di teatro, molto attivo  però (nonostante che Carnival  of Soulus sia di fatto la sua sola opera di finzione) pure nel campo cinematografico, avendo realizzato nella sua carriera più di un centinaio di film promozionali e documentaristici girati soprattutto nella sua Lawrence (Kansas).

Nel cinema a soggetto, è stato probabilmente limitato dall’insuccesso che nell’immediato segnò il destino di questa sua prima, ultima fatica. Non che non ci abbia provato a replicare, solo che nessuno volle dargli credito. Si contano al riguardo diversi tentativi, ma tutti purtroppo disattesi, come Flannagan’s Smoke, tratto da un dramma sociale del commediografo John Clifford, un film di fantascienza (The Witch Reluctant su sceneggiatura di James E. Gunn) tramontato soprattutto per i dissidi sorti in pre-produzione con l’attore che doveva esserne il protagonista, e Windwagon, drammatizzazione storica delle vicende del Kansas nel periodo dell’innovazione del "carro a vela" (fine del XIX secolo).

 

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