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Mississippi Burning. Le radici dell'odio

Regia di Alan Parker vedi scheda film

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La recensione su Mississippi Burning. Le radici dell'odio

di Decks
4 stelle

Se c'è una cosa che i film statunitensi aventi come tema il razzismo ci hanno insegnato, è che Alabama e Mississippi non furono mai due stati federali aperti all'integrazione etnica. In particolar modo, in quegli anni 60 dove persino le istituzioni proteggevano comportamenti, non solo discriminatori, ma violenti.

Alan Parker, ispirandosi a fatti realmente accaduti, ripercorre quell'anno del 64 che sconvolse la contea di Jessup.

 

Inanzitutto una premessa: simili tematiche sono senz'altro piacevoli; possono dare un determinato insegnamento sulla negatività di azioni volte ad emarginare particolari fasce di società; in più, negli Stati Uniti, durante determinate ricorrenze, è ovvio che possa emozionare una buona fetta di pubblico.

Tolto questo, però, non si può negare che ci troviamo di fronte una storia che dopo cinque minuti sappiamo già come andrà a finire, a cui si somma uno script banale che lascia del tutto indifferenti alla visione.

La denuncia sociale di Alan Parker finisce per essere, non solo prevedibile (come già detto) ma anche eseguita in modo grossolano. Sembra di intravedere talvolta dei buoni elementi, quali la bella scena alla tavola calda: non solo è storicamente accurata nel mostrare la netta divisione, anche in luoghi pubblici, tra bianchi e neri, ma crea la giusta atmosfera tramite sguardi carichi d'odio e silenzi significativi.

Malauguratamente, esse sono ben poche in confronto ad altre, colme di retorica, più quella morale di democrazia tipicamente statunitense: questa prende sempre più il sopravvento, lasciando a piangere (letteralmente) in un angolo, le persone di colore, che oltre a subire, non fanno altro che cantare per i propri defunti. Parker non ne da affatto una giusta visione: prefisce esaltare, piuttosto che un possibile incontro tra le due etnie, i metodi brutali del dipartimento di Hoover; dalla coercizione al ricatto, demolendo buone intenzioni a favore di un Hackman che sembra più essere un violento sceriffo del Far West anzichè un ispettore federale.

Ed allora la domanda da porsi è la seguente: in uno stato indietro nel tempo, è giusto da parte della legge rispondere con un atteggiamento ugualmente feroce? La mia risposta, personalmente, è: spero proprio di no.

 

La sceneggiatura non aiuta di certo: alterna un facile e ridondante sensazionalismo ad una disarmante didascalicità che contrappone i classici buoni contro i cattivi. Non sarebbe un così grave difetto, visto che tante opere che mancano in originalità sono comunque godibili e riuscite. Ma qui Parker ha la brutta idea di farcire tutto con un incessante buonismo, che perdura per tutta la durata della pellicola fino al finale: qui arriva addirittura ad essere patetico; il tutto aggiunto ad una sfilza di dialoghi ripresi da ben più noti western e polizieschi.

Fotografia e regia sono gli unici due aspetti tecnici appena accettabili: nella prima, Peter Biziou rende efficace la colorazione delle fiamme, che sempre più divampano nello schermo o nel background; l'aumento di saturazione è in diretta proporzione con l'odio scaturito dai cittadini della contea; una scelta azzeccata, ma non così originale da meritarsi il premio Oscar.

La seconda dimostra di avere non solo professionalità, ma un proprio stile: questo fa sì che i minuti scorrano facilmente e senza pretese sotto gli occhi dello spettatore; mantiene continuamente un buon ritmo che non rende difficoltoso l'avanzare della trama, altrimenti debole e insipida.

 

Un gran numero di interpreti, che hanno dalla loro una nomea più che buona, fanno parte del cast. Sfortunatamente, o perchè Parker rimane ancorato a loro passate figure cinematografiche, o per la cattiva scrittura del personaggio, sono veramente in pochi quelli che possono vantarsi di aver reso al grande schermo una buona interpretazione: Gene Hackman pare essere un miscuglio tra i suoi due alter ego di "Bat 21" o "Il Braccio Violento della Legge"; Willem Dafoe è sprecato nel ruolo di poliziotto legale: sempre in secondo piano e senza possibilità di uscire da un personaggio eccessivamente stereotipato; stesso discorso vale per Frances McDormand, che al suo quarto ruolo cinematografico risulta sperduta nel set e priva di emozioni; è necessario aprire una parentesi per Ronald Lee Ermey: non solo i suoi scatti d'ira danno una marcia in più alle scene, ma risultano persino simpatici, il suo finale sarà ben più significativo della solita e abusata cantilena del popolo maltrattato.

 

Alan Parker fallisce nell'intento di rendere al cinema una valida critica sociale: non possiede né innovazione né un esito positivo, visto i pochi aspetti veramente riusciti. Non risulta neppure accettabile causa i problemi sopra citati; unico scopo può essere quello di informare su un evento storico del Mississippi, per il resto, non solo è insufficiente, ma porta avanti una filosofia e un impronta retorica molto discutibili.

Occhio per occhio dunque, ma ricordiamoci che così, piano piano si diventa tutti ciechi.

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