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Una separazione

Regia di Asghar Farhadi vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Una separazione

di ed wood
8 stelle

Un grande film. Finalmente, il cinema iraniano torna alla ribalta internazionale dopo i fasti degli anni 90, senza necessariamente ricorrere alla pura urgenza politica di film "necessari" come "I gatti persiani". Farhadi non è nè Kiarostami nè Panahi: in "Una separazione" non c'è il distacco, la riflessione, il meta-cinema, la dialettica fra realtà e finzione che avevano caratterizzato la stagione d'oro di questa cinematografia nazionale. Tuttavia, la regia in questo film è perfetta e creativa nel valorizzare la vasta complessità emotiva, morale, psicologica e sociologica della vicenda. Il titolo italiano non è solo il presupposto narrativo del film, ma una chiara antifrasi: non c'è alcuna separazione, reale o ideale, in questo film, se non (forse) nell'ultimissima scena, dove, per la prima volta in due ore di film, Farhadi cristallizza il distacco fra i due coniugi attraverso una inquadratura dove entrambi stazionano uno di fronte all'altro, ma su due piani differenti e ai lati opposti dell'immagine. Nel resto del film, invece, Farhadi gestisce l'esiguo spazio filmico (essenzialmente ambienti domestici, un ospedale, un commisariato) evitando campi lunghi, ma sfruttando la profondità di campo, in modo da cogliere i personaggi sempre in qualche forma di reciproca "relazione forzata": ora con chi viene colto sullo sfondo dell'immagine, dietro a un vetro, ai margini ma sempre inevitabilmente incluso nel raggio di sguardo del regista, ora con chi addirittura "impalla" una fetta dell'immagine stessa. Questo approccio convulso, impuro, indefinito alla composizione dell'immagine rende l'idea di un caos umano e relazionale, per cui ogni individuo è costretto ad assumersi le proprie responsabilità di fronte all'altro. Non si può scappare dalla propria coscienza, non si può farla franca di fronte alle accuse che ci vengono rivolte contro: c'è sempre un "altro" che ci chiama in causa. Lo sguardo di Farhadi non giudica, non condanna senza prove schiaccianti, coltiva invece il dubbio, lo strazio del dilemma; ma nonostante questo, e qui risiede il valore del film, non asseconda affatto (come accade invece in certi sguardi occidentali) il cinismo dei personaggi, le rispettive tentazioni egoistiche, la tendenza (per quanto in parte comprensibile) a scrollarsi di dosso le proprie colpe. Quello di Farhadi è l'esempio di uno sguardo morale, senza essere mai moralista: rigoroso, fermo, imperturbabile, evitando però ogni invadenza. Il miracolo del cinema iraniano risiede proprio in questa ostinazione nell'evitare l'odiosa, premeditata e insincera amoralità di tanta cultura europea e statunitense, senza però voler impartire lezioni, anzi: in Farhadi, come in Kiarostami e Panahi (nonostante le evidenti divergenze di approccio e di stile), permane quella visione aperta, costruttiva, attendista, relativista della società e dell'esistenza. Non ci sono protagonisti, non ci sono certezze, non c'è nessuno in cui identificarsi: intanto però, come nel miglior neorealismo, "i bambini ci guardano" (e in questo film, come accade nel finale, una volta tanto, "decidono"). Farhadi osserva il comportamento degli esseri umani di fronte al peso della vita e dei suoi affanni, siano essi frutto del fato infame o di una società problematica: da quest'ultima prospettiva, è ammirevole (e, ancora una volta, in piena linea con la cine-tradizione iraniana) la capacità di far passare osservazioni di tipo politico/sociale/culturale/religioso in maniera trasversale rispetto alle vicende individuali. La condizione della donna, la visione della fede islamica, le differenze di classe e altri aspetti dell'Iran moderno traspaiono spontaneamente dal dispegamento stesso della storia, senza la necessità di digressioni. Bentornato Iran, a questi livelli!

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