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Il cavallo di Torino

Regia di Béla Tarr vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il cavallo di Torino

di Tex61
10 stelle

Il cavallo di Torino.

Locandina internazionale

Il cavallo di Torino (2011): Locandina internazionale

SPOILER PESANTISSIMI.

Il cinema di Bela Tarr, per essere apprezzato o almeno compreso, non può prescindere dall’accettazione di una certa visione di condizione umana, aggiungerei di complessiva concezione dell’esistenza. E’ un cinema che, a mio parere, va comunque visto anche da chi non ne condivide le fondamenta, perché costituisce l’apoteosi del pessimismo esistenziale e qualche elemento di riflessione può fornirlo di sicuro anche ai più scettici.

 

Questo, in particolare, è un film che va visto, sedimentato e rivisto.

Il narrato è, di proposito, temporalmente non collocabile e quindi assume un significato planetario di “condizione umana”. Sei giornate di devastante ripetitiva quotidianità, sei giornate che sono la metafora di una vita. La trentina di piani sequenza che compongono il film sono sostenuti da una fotografia sempre di altissimo livello e la tensione, l’angoscia diventano palpabili quasi da subito. Prima i tarli che smettono di divorare il legno, poi il cavallo che precipita in una preoccupante apatia: qualcosa di tragico sta per accadere. Qualcosa d’ignoto incombe….E quel vento insistente, potente metafora del soffio creatore di Dio o, come da altre interpretazioni, della follia (anche se propendo per la prima).

Arriva un ospite e porta con se la descrizione di un’umanità in rovina, vomita il suo monologo e se ne va. E quel vento insistente….che scuote, metaforicamente percuote e ostacola, riempiendo di fatica anche il solo quotidiano cammino verso il pozzo.

 

 

Si consumano gesti sempre uguali, la vestizione, l’onnipresente patata mangiata avidamente ancora bollente come se dopo ci fossero mille impegni da onorare ma, l’unico, è sedersi davanti alla finestra a guardare l’orizzonte, come ad aspettare i Tartari del famoso romanzo di Buzzati, oppure davanti ad una metaforica televisione che trasmette ininterrottamente il vento, la desolazione di una landa incolta, la nostra inerme sottomissione alla potenza creatrice e quindi alla natura.

Arrivano gli zingari, vengono cacciati ma, come riconoscenza “dell’ospitalità”, lasciano un libro: i luoghi sacri sono stati profanati, offesi. L’ira di un qualsivoglia Dio si scatenerà. Si secca il pozzo, un elemento vitale viene a mancare, bisogna partire, andarsene, tentare di fuggire per sottrarsi ad una fine annunciata, con il fardello delle nostre cose, del nostro vissuto, dei nostri ricordi ma, in cima alla collina, qualcosa ci rifiuta, qualcosa di ignoto, impalpabile, imperscrutabile e soprannaturale ci costringe alla nostra sorte. Siamo condannati. E’ forse la sequenza più forte, significativa ed angosciante di tutto il narrato ed è questo l’unico momento in cui i protagonisti provano qualcosa di concreto per contrastare un destino che appare segnato. Inutilmente.

Un’unica risposta viene data ai molti fatti inspiegabili che accadono nei sei giorni: “Non lo so”, come a significare la nostra terrena incapacità di comprendere quell’inarrestabile e progressiva negatività.

La lampada (elemento ricorrente nel cinema di Tarr, come la stufa, il bicchiere e il gesto di bere) è carica ma non si accende più, il cavallo sta morendo, l’acqua è finita, il vento si è placato; ora tutto è immobile e odora di oscuro presagio. Seduti davanti alla finestra lo sguardo non è più volto all’esterno ma il capo è chino a significare la rassegnazione. “Dobbiamo mangiare” è l’ultimo ordine genetico che ci viene dall’istinto di sopravvivenza, in stridente contrasto con l’evidenza dei fatti. Dobbiamo sopravvivere ad ogni costo, così ci ordina la natura umana. Poi schermata nera. Fine di tutto.

 

La musica ossessiva e minimalista dello storico collaboratore di Tarr, Vig, e un’austera voce fuori campo completano la tessitura dell’intera pellicola.

 

Qualcuno in rete trova nel cinema di Tarr anche frammenti di speranza, io faccio una gran fatica a cogliere, almeno in questo film, qualche speranza. Il sottoscritto deve ancora vedere solo Satantango e, se la speranza non alberga in quelle sei ore, non so proprio dove ricercarla! E’ più probabile che la stessa ci fosse, ma si sia estinta nel percorso cinematografico ed esistenziale dell’autore, come in tante vite vissute che, a suon di delusioni e sogni infranti collocano la speranza nell’unica dimensione dove sia degna di stare: l’utopia. Non c’è speranza e non c’è amore (unica fugace ed episodica consolazione esistenziale) in quest’ultima pellicola del regista ungherese; c’è solo una costante, ossessiva e immutabile sensazione d’imponderabile fine, di succube sopravvivenza. Questo cinema, di una potenza dirompente e angosciante, ricco di simbolismi, strutturato con pochissimi elementi, senza alcun effetto speciale (a parte l’elicottero), forzature digitali o oniriche visioni produce una desolazione da manuale, ultimativa e irreversibile, andando al cuore di ciò che vuole rappresentare.

 

Dopo il Cavallo di Torino, dopo l’abbraccio di Nietzsche, la pazzia, la “mite follia”o uno stato di assente catalessi sono le uniche condizioni che possono permetterci di aggirare, offuscare, nascondere, dimenticare l’ineluttabile tragedia dell’uomo e dell’umanità tutta. “Dumm” in tedesco significa stupido e nella stupidità o in quello che io definisco “ottimismo ebete”, che troppo spesso è la negazione di fatti oggettivi, (a fronte di un ottimismo “strutturato” che rispetto) si cela la probabile ricetta per vivere alla meno peggio e quindi una sostanziale sconfitta della ragione, del pensiero.

Dopo questo film tutto il cinema d’autore dovrà confrontarsi su riferimenti diversi; che si condivida o meno la sua negativa essenza generatrice. Il cavallo di Torino è forse l’estrema sintesi del cinema di Bela Tarr, del suo percorso; è il suo testamento. Dopo questo lavoro, il maestro ha dichiarato che andrà in pensione…non ha più niente da dire. Evitate di guardarlo dopo una giornata difficile. Cinque stelle e lode.

 

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